venerdì, Gennaio 3, 2025

Giornata nazionale del Parkinson, ecco di cosa parliamo

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Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Dalla Sardegna alle Marche. Il 26 novembre in tutta Italia si celebra la Giornata nazionale del Parkinson, promossa dall’accademia Limpe-Dismov e dalla Fondazione Limpe per il Parkinson Onlus. Una giornata rivolta a tutti: pazienti, familiari e semplici curiosi per conoscere da vicino la malattia, le soluzioni per affrontarla e le promesse della ricerca. Per aumentare la consapevolezza e trasmettere il messaggio che “Non devi essere un supereroe per vivere con il Parkinson“, ricorda quest’anno la campagna. Per orientarsi tra gli eventi eccolo un piccolo vademecum sulla malattia.

Che cos’è
Pare che Galeno descrisse sommariamente la malattia già nel 175 dopo Cristo. Ma prima che la comparsa di tremori, lentezza nei movimenti e perdita di forza muscolare diventassero i sintomi di una malattia vera e propria sarebbero passati secoli. La prima descrizione della malattia neurodegenerativa si deve a James Parkinson (755-1824) il medico inglese che nei primi anni dell’Ottocento descrisse una strana forma di paralisi agitante in alcuni dei suoi pazienti e conoscenti.

Solo dopo la sua morte si cominciò a riferirsi a quella condizione come alla malattia di Parkinson.

Malattia allora, come oggi, di eziologia sconosciuta sebbene sintomi e meccanismo siano noti da tempo. Accanto ai tremori di gambe , mani e dita, alla rigidità muscolare, alla lentezza dei movimenti, chi soffre della malattia ha anche difficoltà a mantenere l’equilibrio, a parlare, a scrivere.

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Spesso però, specie all’inizio, possono comparire sintomi più sottili, non strettamente motori: non unici né sufficienti da soli a mettere in allarme, ma rintracciabili, spesso a ritroso, in chi poi viene diagnosticato con la malattia (soprattutto sulla base proprio dei sintomi e della storia del paziente). E a volte questi sintomi scambiati solo per altro: difficoltà a dormire, a deglutire, costipazione, cambiamenti nella voce, faccia e sguardo spenti, disturbi dell’umore, affaticamento, problemi nella vita sessuale, incontinenza, affaticamento.

Un ventaglio ampio di manifestazioni, che diventano sempre più e gradualmente invadenti, e riconducili a quello che avviene nel cervello di chi soffre di Parkinson: la perdita di un neurotrasmettitore, la dopamina, una sostanza fondamentale per la regolazione dei movimenti e delle emozioni. La mancanza di questo messaggero chimico è dovuta alla progressiva perdita dei neuroni che lo producono, i neuroni dopaminergici nella regione della substanza nigra, anche se alcune tesi sostengono che il danno inizialmente riguardi altre regioni del sistema nervoso, come il bulbo olfattivo, e che si spinga nella substanza nigra solo in un secondo momento. Si stima che la comparsa dei sintomi più caratteristici della malattia, come i tremori, avvenga quando ormai la neurodegenerazione ha colpito oltre il 50% dei neuroni dopaminergici.

La malattia di Parkinson viene inclusa in un gruppo più ampio di disturbi noti come parkinsonismi, di sintomatologia simile ma attenuata, generalmente con poca risposta alle terapie, esordio improvviso e progressione veloce. Sono condizioni diverse, con cause variabili e di non certa attribuzione alla degenerazione dei neuroni dopaminergici come nel morbo di Parkinson.

Come ma non perché, la ricerca delle cause
Perché questi neuroni a un certo punto muoiono? Non esiste un unico perché noto che spieghi l’insorgenza del Parkinson. Ad oggi si ritiene che la malattia rientri tra quelle patologie che nascono dalla combinazione di fattori genetici e ambientali. “I geni caricano la pistola, l’ambiente preme il grilletto”, sintetizzano alcuni esperti in materia con una metafora abbastanza eloquente. Per quel che riguarda i fattori genetici si è osservato che una percentuale variabile, intorno al 15% dei pazienti, ha un famigliare che soffre della stessa malattia, ma al tempo stesso i ricercatori sembrano concordi nel sostenere che avere un parente con la patologia aumenti leggermente il rischio di soffrirne rispetto alla popolazione in generale. In rari casi sono stati identificati geni che se mutati sono associati direttamente alla malattia, con esordio in giovane età. La genetica del Parkinson è complessa e varia da geni associati alla patologia, ma che non la determinano, a rarissimi geni causali, che sono sufficienti a farlo. La questione ambientale non è meno complicata. Tossine, insetticidi, pesticidi, erbicidi sono stati associati al rischio di sviluppare la malattia, e un ruolo potrebbero averlo anche i traumi cerebrali.

Quanti ne soffrono
300mila persone. Tanti sono, circa, in Italia i malati di Parkinson. Più maschi che femmine, circa 1,5 volte di più. A livello della popolazione generale si stima che a soffrirne siano oltre sei milioni, ma alcune stime parlano del 3 per mille, con la percentuale cresce fino all’1% negli over 65. La conta insomma non è così semplice. Quello che sembra però abbastanza chiaro, e come testimoniano le storie raccolte dal sito che celebra la giornata nazionale del Parkinson, è che non parliamo di una malattia delle persone anziane. Isabella ha 60 anni, da sei convive con una diagnosi della patologia. Alberto di anni ne ha 59, gli ultimi nove passati a combattere la malattia. Come loro tanti che hanno conosciuto il Parkinson da giovani: uno su 4 prima dei 50 anni, uno su dieci meno di 40, soprattutto a causa delle diagnosi che arrivano sempre prima, perché capaci di dar un nome presto ai sintomi e delle forme a esordio precoce.

Oltre i farmaci: l’esercizio come terapia
Non esiste cura contro il Parkinson e strategie e farmaci che i pazienti seguono e assumono servono più che altro per la gestione dei sintomi, soprattutto per i problemi relativi al movimento e ai tremori. Trattamenti che hanno come scopo quello di rimediare al danno alla base della patologia, quindi cercando di aumentare, rimpiazzare, mimare gli effetti della dopamina sul cervello, o di ritardarne la degradazione. Eppure col tempo gli effetti dei farmaci tendono a diminuire e possono comparire anche problemi quali confusione e allucinazioni. Ma la terapia contro la malattia non conta solo pillole. Lezioni di ballo, tai-chi, pilates, nordic walking, acquagym, nuoto, giardinaggio o semplici passeggiate: qualsiasi attività fisica che spinga a muoversi, potenziando l’equilibrio, la coordinazione, la forza e la flessibilità dei muscoli è consigliata per chi soffre di Parkinson. Come una vera e propria terapia.

Certo, non bisogna improvvisarsi atleti di punto in bianco: fondamentale, oltre ad avvalersi magari dell’aiuto di un fisioterapista, è seguire alcuni semplici consigli, come muoversi lentamente, non strafare, fare stretching, concentrarsi sulla postura durante l’esercizio, evitare di camminare all’indietro, camminare poggiando prima il tallone ed evitare di trascinarsi se si è stanchi.

L’importante è fare esercizio fisico, e praticarlo con regolarità: alcuni studi dimostrano che i pazienti che si allenano per circa 2,5 ore a settimana mantengono un livello di qualità della vita più elevato e che i benefici, come per i farmaci, sono tanto maggiori quanto prima si inizia a seguire un allenamento costante. E non solo perché i muscoli sono più forti, ma perché muoversi aiuta a mantenersi attivi nella quotidianità e a combattere anche ansia e depressione. Senza considerare che, come suggeriscono alcune ricerche, l’allenamento fisico potrebbe essere in grado di rallentare i cambiamenti che avvengono nel cervello con l’età e, come osservato nei modelli animali, l’attività potrebbe fornire qualche effetto neuroprotettivo e migliorare l’utilizzo della dopamina.

Le frontiere della ricerca
Quella contro il Parkinson è tra le più concrete delle terapie che un giorno potrebbero arrivare grazie alle cellule staminali. Ce lo aveva raccontato a suo tempo la scienziata e senatrice vita Elena Cattaneo: il Parkinson come banco di prova, come una scommessa per mettere alla prova le potenzialità delle cellule staminali. L’idea è quella di agire con le terapie cellulari con la stessa logica usata per i farmaci: ristabilire la produzione di dopamina. Per farlo l’idea è quella di ottenere dei neuroni dopaminergici (quelli persi nella malattia) da cellule staminali, come quelle indotte o le embrionali, così da ristabilire la produzione di di dopamina.

Un articolo apparso pochi mesi su Journal of Parkinson Disease ripercorreva la storia dei trapianti di neuroni nel Parkinson e lo stato dell’arte, concludendo che effettivamente, dopo decenni di prove con neuroni fetali e di sperimenti su modelli animali, la capacità di ottenere neuroni dopaminergici dalle cellule staminali continua a migliorare (e la ricerca nel campo non si ferma, affatto) e con essa la possibilità reale di trial clinici nell’uomo. Uno di questi trial clinici, in cui i neuroni sono ottenuti da un tipo particolare di staminali (quelle partenogenetiche, cioè da ovociti non fertilizzati), è cominciato.

Già nei giorni scorsi è arrivata la notizia che il trattamento, almeno osservando la risposta nel primo paziente, è sicuro e che sembrano esserci incoraggianti, seppur piccoli, segni di efficacia. Non siamo cioè che all’inizio ma le prove accumulate finora ci dicono che quella delle staminali è una strada che vale più che la pena di seguire.

Ma la ricerca contro il Parkinson ha tanti aspetti, dalla ricerca delle cause alle terapie. Così, scorrendo tra i triali clinici su ClinicalTrial.gov, si trovano le sperimentazioni per testare le potenzialità di un guanto contro i tremori, studi per chiarire i meccanismi patologici, identificare nuovi marcatori per la diagnosi precoce, valutare l’efficacia della stimolazione cerebrale, l’interazione dei farmaci con la genetica, l’impatto dell’esposizione a fattori ambientali, come i metalli.

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