giovedì, Dicembre 26, 2024

La serie tv Rita e il modello (dis)educativo danese

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Immaginate una scuola in cui ci sono consulenti psicologici, corsi extracurriculari, comitati di coordinamento, metodi didattici e iniziative di inclusione. Non è fantascienza, è la Danimarca. Almeno nel modo in cui una piccola scuola di Copenhagen è descritta dalla serie Rita, prodotta nelle sue prime due stagioni dalla tv di stato TV2 e, a partire dalla terza, anche da Netflix, che la distribuisce in tutto il mondo.

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Ma non tutto è così idilliaco come sembra. Anche questa scuola danese ha le sue ristrettezze di budget e i suoi studenti problematici. Soprattutto ha la sua insegnante controcorrente e sopra le righe: Mille Dinesen, infatti, dà il volto alla protagonista del titolo, un’insegnante per certi versi più immatura dei suoi stessi studenti. Eppure proprio per questo suo non allineamento con il rigido mondo degli adulti, Rita riesce a comprendere le esigenze dei suoi alunni: “Sono diventata un’insegnante per salvare i bambini dai loro genitori“, dice a un certo punto.

Il bello di questa dramedy, che potrebbe sembrare per certi versi estremamente convenzionale e simile a molte altre fiction scolastiche andate in onda anche nel nostro Paese, è che nelle trame e nei personaggi nulla è conciliante come appare. La stessa Rita si dimostra un genitore carente, che garantisce libertà ai figli ma fatica a comprenderli a fondo (in particolare il minore, Jeppe, impegnato ad accettare la propria omosessualità); per non parlare del pessimo rapporto che ha con la tanto odiata madre; inoltre fuma nei bagni, non nasconde la sua antipatia per certi ragazzi o colleghi, fa sesso con il direttore della scuola e perfino con il padre di un’alunna, faticando a intrecciare relazioni durature.

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L’immaturità di Rita è compensata dalla sua ironia urticante, dal disincanto con cui guarda alla vita, dalla sua irresistibile attrazione verso l’errore ma anche l’eccezionalità . Miscelare amarezza e leggerezza in modo così sapiente è dote rara in un prodotto televisivo, a cui si aggiunge il modo diretto e privo di stereotipi in cui si trattano temi sociali importanti: l’aborto, l’omosessualità, l’autismo, i disturbi alimentari, l’uso precoce di droghe. Fortunatamente qui il grande assente è il moralismo, assenza che permette di andare in fondo alle questioni in modo spassionato.

Lo sfondo sociale si mescola a una realizzazione tecnica impeccabile: i personaggi sono dipinti senza morbosità ma anche senza sconti, ci sono alcuni comprimari davvero eccezionali (fra tutti la giovane insegnante, sognatrice e un po’ stralunata, Hjørdis, su cui è stato realizzato un piccolo spin-off), la luce soprattutto della primavera e dell’autunno nordici danno a tutta la serie un fascino inaspettato. Chi avrebbe mai detto che non un thriller, ma un prodotto tv danese ambientato in una scuola potesse essere oggetto del binge watching più accanito?

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Funziona così soprattutto perché il confronto istintivo è con la realtà italiana. Non solo quella scolastica, in cui ogni tentativo di buona scuola naufraga fra governi che si avvicendano forsennatamente e cronica carenza di fondi. Ma anche quella del racconto di temi come i giovani e l’educazione. Fra tentativi buffi e concilianti, o altri estremi e sperimentali come Il Collegio, manca lo sforzo per allinearsi sul piano della verità più cruda: cosa pensano gli studenti italiani? Come imparano? Quali sono le cose che non dicono? Per saperlo tocca andare in Danimarca.

 

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