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“Stavo disperatamente cercando di convincere la ragazza – si è difesa la D’Urso – innamorata di questo ragazzo, che l’amore può degenerare e trasformare un uomo innamorato in uno schifoso criminale, una bestia che va punita e va curata. Questo dico da nove anni, sono contro la violenza sulle donne da sempre. Quello non è amore e quelli non sono uomini”. La toppa quasi peggio del buco, verrebbe da dire. Come se si debba specificare di essere “contro la violenza sulle donne”.
Per giunta, quella ricchezza di aggettivi e sostantivi negativi rappresenta il classico campanello d’allarme di chi si sente in colpa per non aver sottolineato un concetto quando era giusto farlo e tenta di correre ai ripari bombardando fuori tempo massimo.
Su Facebook c’è chi le dice che la difesa non è credibile per mille ragioni, chi le scrive che la “radieranno dall’albo degli attori” – così intendendo una sua mistificazione dell’intera operazione – chi definisce “rivoltante” il suo programma, chi spiega giustamente che “troppo amore può portare solo cose belle”. E ancora chi, cogliendo il punto più di altri, si oppone alla solita solfa delle parole travisate. Il teatrino della post-verità per cui basta rilanciare per superare in scioltezza ogni responsabilità senza neanche voltarsi.
“Il fatto è che bisogna pensare attentamente alle parole da utilizzare in televisione, bisogna pensare attentamente alle parole che si utilizzano con una persona vittima di violenza. Le parole sono importanti” scrive un’utente sulla pagina della conduttrice. C’è infine chi si limita a osservare la solita arrampicata sugli specchi. Su Twitter la faccenda, se possibile in modo ancora più devastante, ha invece preso la china del meme infiammatorio, con gente che fa ironia e le inventa di ogni tipo intorno all’associazione amore=aggressione con benzina. Vabbè.
Parliamoci chiaramente. Il problema vero è che, se viene consentito a questa roba di andare in onda, mancano le contromisure che ne bilancino gli spaventosi effetti collaterali. Mi spiego: mancano le sanzioni. E manca la sensibilità nel riconoscere un proprio, pachidermico e drammatico, passo falso. Mi spiego: il presupposto è che quell’intervista non s’aveva da fare. D’Urso e i suoi autori hanno scaraventato una persona palesemente fragile, a poche ore da un terribile atto di violenza e ai limiti dello stato confusionale in pasto al pubblico morboso del pomeriggio televisivo. Ma da Avetrana in poi, e pure prima, quel programma come molti altri ci hanno abituato a questo genere di violenze televisive. Momenti in cui fanno male a tutti: a chi parla e a chi guarda.
Assodato questo fatto, si dovrebbe almeno cercare di contenere i danni. Ci si dovrebbe almeno rendere conto, del gioco a cui si sta giocando. Non basta un volto accorato e qualche brutto panegirico di situazione per saper gestire una situazione scivolosa – e a cavallo di ogni deontologia, giornalistica o meno.
Se alla fine quei danni arrivano – e non sono solo quell’etichetta da Baci Perugina del dolore ma anche e soprattutto lo spettacolo devastante di una donna violata che tenta di difendere il suo assassino – bisognerebbe avere, cara D’Urso, l’umiltà di riconoscerlo. E fare qualcosa per sensibilizzare, bilanciare, tornare sui propri passi. Questo non ci piace, di te: non bastano 60 secondi di difesa sconclusionata e anche un po’ stizzita. Quando gli stizziti, anzi gli incazzati, siamo tutti noi per quei minuti d’orrore. Occorrono esperti – quelli veri, non i cartonati sul tuo videowall – che raccontino, informino, spieghino come fermare queste situazioni e come farsi aiutare. Come rompere lo schermo del male. E anche quello del televisore.
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