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“Il virtuale è riscrittura del mondo, insieme di codici, simbologia, e come ogni simbolo è oscurità, è caos. Abbiamo creduto di controllare il caos codificandolo, ma in verità abbiamo solo aperto un buco nero nell’inconscio“: da questa premessa parte l’estremo esperimento d’arte digitale che è uno dei centri nevralgici attraverso cui si snoda L’orizzonte della scomparsa, il nuovo romanzo di Giuliana Altamura, da poco uscito per Marsilio.
Già il titolo, una citazione da Baudrillard, insiste sulla separazione ormai perduta fra realtà e rappresentazione della stessa attraverso immagini: i protagonisti del romanzo (Lana, bellezza dal fascino irriducibile, e Christian, pianista promettente ma scosso dal passato che lo divora) si sfiorano proprio solo attraverso un rapporto fatto di frasi e pochissime immagini impresse su uno schermo. E così è Braxon, la strana persona (entità?) che li mette in contatto scatenando un mistero che sa di mistica dell’era digitale, quasi che la propria proiezione online sia in qualche modo una pericolosa elevazione spirituale.
Tutti i loro contatti avvengono tramite Skype, Chatroulette, mail: non si sfiorano mai, se non toccando i cristalli liquidi di uno smartphone o di un portatile (“Guarda quei cadaveri, sugli schermi. Piuttosto inquietanti, non è vero? Eppure si tratta di immagini, sono solo dei simboli“, si legge a un certo punto). Tuttavia l’ossessione in cui sono gettati i personaggi di questo romanzo è tremendamente reale.
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Così come reale è il deep web, l’oscuro magma infernale in cui si nascondono tutti i segreti inconfessabili e forse molte delle risposte: “La verità è che l’uomo ha perso ogni capacità di guardare in alto“, dice un altro personaggio, “è incapace di bilanciare il male che lo trascina sempre più verso di sé“.
La penna di Altamura, precisa e decisa, evocativa ma anche tremendamente pragmatica, non si abbandona, però, a un facile luddismo. L’oscurità del web, la solitudine depressiva dei rapporti digitali non sono altro che un calderone in cui finiscono per ammassarsi tutte le nevrosi di una generazione (quella più o meno dei trentenni) che sembra portarsi dentro un’insofferenza e un nichilismo dalle origini sconosciute: corpi mai perfetti quanto l’immaginario collettivo vorrebbe, sessualità sempre al limite per incapacità di definirsi, successi e talenti artistici esasperati dalla competizione incessante, fanatismi religiosi che forniscono utopie fragili a cui aggrapparsi, abusi e soprusi che la società fa finta di ignorare. Il deep web, sembra, è dentro di noi.
Così descritto, L’orizzonte della scomparsa può apparire come un romanzo angosciante. Di sicuro non lavora su una conciliazione, su una pacificazione dei dissidi interiori, eppure riesce anche a far passare un barlume di speranza. Lo si vede quando l’autrice condensa nei luoghi urbani (in questo caso Parigi e Montréal) non solo una solitudine di cemento e vetro, ma anche la poesia di luoghi inaspettati e stratificati. Oppure quando lei – ex musicista in una famiglia di musicisti – descrive il turbine di passione, perdizione e estasi del pianista alle prese con Bach o Rachmaninov.
Viene da chiedersi quale realtà descriva questo libro, quanto distanti da noi e dalle nostra rete di relazioni siano queste persone perse che vagolano nei meandri più bui di Internet per pacificare la propria disperazione. La risposta è: più vicino di quanto pensiamo. Basta dire che il romanzo si apre con Catfish, la famosa trasmissione di Mtv che va a caccia delle identità false spacciate sul web. Perché di questo stiamo parlando: identità perdute, identità virtuali eppure mai così reali. Come scrive Altamura, “la virtualità è un flusso costante, un’anticipazione continua, e impera su tutto, prolifera nel vuoto“.
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