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In King Arthur c’è La spada nella roccia e c’è Excalibur, ci sono diversi film fatti sulla formazione di re Artù ma anche molto della mitologia britannica tradizionale, soprattutto c’è un’estetica e una scenografia presa a piene mani da Il trono di spade e ci sono i gangster movie. Non era facile far convivere tutto per raccontare, di nuovo, in maniera originalissima la storia di Artù, ma Guy Ritchie ce l’ha fatta.
King Arthur è un fantasy in cui umani e maghi sono specie messe gli uni contro gli altri, in cui Artù è cresciuto come protettore di prostitute in un bordello, un orfano che non sa nulla del proprio passato fino a che non è costretto, come tutti, a tentare di estrarre la spada nella roccia. Ci riuscirà, diventando re di diritto (ma lo zio Jude Law, che ha massacrato la sua famiglia per arrivare al trono, non ci sta), dovrà lottare con altri nobili ribelli tuttavia dentro rimarrà un criminale da strapazzo con il doppio taglio di capelli e le mani da manovale.
È questa l’unione che dà fascino a King Arthur: la maniera in cui Guy Ritchie ha fuso la mitologia fantasy alla sua passione per i pesci piccoli della criminalità mostrati in Lock & Stock o in The Snatch. Siamo nel passato ma le persone parlano come violenti leader della periferia di Londra, ci sono i vicoli e ci sono i piccoli sistemi di potere, perché per Ritchie tutto si riduce a quello: chi controlla chi, esercitando quale potere e con quale scaltrezza o violenza.
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Ribaltata così la storia di Artù, preparata per essere una grande saga (tantissime le domande irrisolte alla fine del film e i lanci a prossimi eventuali capitoli), diventa uno stranissimo ibrido che si fa notare per il modo incredibile di montare e imprimere un ritmo indiavolato alla narrazione.
Dopo almeno due introduzioni con montaggio musicale (una racconta come lo zio cattivo abbia preso il potere, la seconda riassume in pochi minuti i decenni in cui l’orfano Artù è diventato una montagna di muscoli e crimine) siamo introdotti in un mondo che fa una fatica incredibile a rimanere in costume. Nonostante una certa coerenza con quelli che sono i simboli e i toni (ma anche i colori) del fantasy, King Arthur strizza volentieri l’occhio alla modernità, veste i suoi personaggi con abiti tradizionali che sembrano però contemporanei. Smania per lasciare il passato e incontrare la contemporaneità in una storia che è tutta al maschile. Uno solo il personaggio femminile e molto marginale. Quella della spada Excalibur e della riconquista del trono da parte di un legittimo erede è una questione familiare di padri e figli, di zii e nipoti, di uomini che fanno gli uomini nel bene e nel male.
Del resto la maniera in cui la storia racconta lo scontro di diversi sistemi di potere (quello più grande del re, quello avverso dei maghi, quello straniero dei vichinghi, quello piccolo dei gangster) è l’essenza stessa delle storie moderne. Guy Ritchie lo sa e come aveva fatto per lo Sherlock Holmes con Robert Downey Jr. inietta di espressionismo fumettoso la vicenda della spada nella roccia, la colora di grandissimo divertimento, umorismo e invenzioni mai viste, fino ad animare un film che sembra sfruttare ogni angolo dell’inquadratura, ogni possibilità di creazione per dimostrare di sapersi davvero divertire con il cinema, di saper creare ritmo e parlare ad un pubblico assetato di intrattenimento senza trattarlo come un cretino ma anzi sfidandolo in un gioco di intelligenza e stimoli.
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