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Oltre che a chi abita nei pressi, e ovviamente alla città intera, i Casamonica stanno massacrando Roma in un senso più ampio: sono diventati un virus. Stanno contagiando la Capitale stabilendo un certo standard dei rapporti. Uno standard fatto di violenza, intimidazione e prevaricazione che prevede dall’altra parte il mutismo assoluto. La grammatica del crimine elevata a quotidianità.
Certo, alla Romanina c’è un feudo fuori controllo che lo Stato fa finta di non vedere e rispetto al quale occorrerebbe una bonifica a 360 gradi, a partire dalle abitazioni di quel clan consanguineo che ne ha fatto il suo impenetrabile quartier generale. Numerose inchieste ne hanno raccontato le dinamiche, con le baby vedette in stile Scampia, e anche solo transitarci in auto rallentando per sbirciare fra marmi e leoni ruggenti costa qualche urlaccio. Ma quella è solo la cellula cancerosa iniziale, il punto di partenza mafioso – che come fenomeno mafioso andrebbe affrontato, non solo come fatto di ordine e sicurezza – da cui lo stile Casamonica si sta imponendo in tutta la città. Questo, ben oltre la penosa aggressione di Pasqua ai danni di una donna disabile e di un barista, ci interessa perché dà il tono di quello che sta succedendo.
Parliamoci chiaramente: la fine di quella donna disabile, a Roma, possono farla tutti e più o meno ovunque. I Casamonica, e tutti gli altri clan che stanno spolpando la città a suon di spaccio, case popolari e strozzo, si sentono anche dove non si vedono. Si percepiscono sotto pelle, nei rapporti quotidiani fra le persone, nella durezza che li segna, nell’ansia di portarli avanti, nell’attenzione che bisogna porre, quasi sempre, quando ci si confronta al semaforo o perfino a prendere un caffè. Specialmente quando si parla di cose che non vanno bene e non devono essere fatte in quel modo: a Roma il senso civico non è morto, è fuori legge. Basta nulla per scatenare aggressioni, risse e anche solo scambi tesissimi e violenti: in mezzo alla strada si è soli. Forse in certi quadranti della città più che in altri, ma non so se a qualche chilometro dal Roxy Bar della Romanina le cose sarebbero andate diversamente.
Questo perché il vuoto delle istituzioni, la proliferazione di sale slot aperte 24 ore su 24, quella di negozietti di scarso pregio e di altri enigmaticamente e perennemente semivuoti, il degrado diffuso e spesso artificioso, la battaglia per far valere qualche straccio di diritto ha prodotto un allarmante riflusso intimista dei cittadini. Cioè della stragrande maggioranza silenziosa delle persone per bene che, amareggiata e depressa, viaggia sempre più speditamente verso una profonda omertà. Di più: Roma è disinteressata del suo stesso destino. La città si chiude la porta di casa alle spalle, e di quello che accade fuori non gliene frega niente.
Quando quel portone si riapre, i cittadini affrontano una giungla quotidiana. Vivono in una cattività che sa di cattivismo. In una città molto bella ma anche profondamente brutta, dove anche la più elementare delle scelte diventa un’impresa su cui investire una certa dose d’impegno. A Roma, insomma, si fatica a rimanere se stessi e in questo senso Casamonica e soci sono un buon paradigma della marcescenza della Capitale: portatori di sopruso e gestori del sottobosco dove lo Stato non guarda mai o guarda male, è come se avessero trasmesso a fette molto ampie di cittadinanza certi metodi ma soprattutto un certo, spaventoso spirito.
A Roma la risposta più frequente, quando si fa notare qualcosa che non va, è una domanda di sfida che prescinde ogni valutazione sul contenuto, sul merito, sull’opportunità, men che meno un fondo di autocritica: “C’hai qualche problema?”. Ecco, se non hai problemi, socchiudi gli occhi e tappi le orecchie, vivi la tua vita abbastanza mutilata. Se alzi appena lo sguardo, fai qualche domanda, anche piccola, può capitarti con sconvolgente semplicità di fare la fine di quella donna coraggiosa che voleva prendere un caffè.
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