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Per la prima volta in assoluto è stato sequenziato l’intero genoma di una delle vittime dell’eruzione che, nel 79 d.C., rase al suolo la città di Pompei: si tratta di un uomo, di età compresa tra i 35 e i 40 anni, probabilmente malato. È quanto emerge da uno studio condotto da un team internazionale di ricercatori che ha coinvolto anche le università italiane di Roma Tor Vergata e l’Università del Salento, pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports. I dati derivanti dall’analisi del dna non solo svelano segreti sulle origini, la vita e la fine dello sfortunato uomo pompeiano, ma aprono la strada a nuovi studi sull’eterogenea popolazione e sugli stili di vita dell’antica città campana durante la Roma imperiale.
La fine dell’antica Pompei
Era più o meno l’una del pomeriggio del 24 agosto del 79 d.C., quando dal Vesuvio si innalzò una colonna di fumo, lava e detriti, visibile a oltre 40 chilometri di distanza, che investì l’area circostante, distruggendo le città di Pompei, Ercolano e Stabia, a sud di Napoli. Fu l’eruzione più mortale mai vista nella storia europea: morirono più di duemila persone, soprattutto per via delle nubi di ceneri ardenti che investirono in pochissimo tempo quelle località. Per Pompei, città portuale romana di età imperiale, luogo di villeggiatura di ricchi romani e sede di commercio e affari, fu la fine. La città venne riscoperta molti secoli dopo, a partire dal Settecento, quando iniziarono una serie di scavi che diedero vita a uno dei siti archeologici meglio conservati di sempre. Il deposito di un ampio strato di ceneri, infatti, fece sì che corpi, strade ed edifici rimanessero così come li trovò l’eruzione del 79 d.C. Tra gli edifici meglio conservati vi è la Casa del Fabbro, all’interno della quale, negli anni Trenta del secolo scorso, gli archeologi trovarono i resti di due scheletri umani.
Studiare i resti biologici di Pompei non è facile, perché le temperature elevate sono in grado di distruggono il materiale di cui sono fatte le ossa, diminuendo la possibilità di riuscire a estrarre quantità sufficienti di dna. Eppure l’eruzione ha anche giocato a favore dei ricercatori, perché i materiali vulcanici che hanno ricoperto i resti potrebbero averli protetti da fattori ambientali che normalmente degradano la materia organica, come l’ossigeno contenuto nell’atmosfera. Questo fattore, insieme ai nuovi metodi di sequenziamento del genoma, hanno consentito al gruppo di ricercatori di compiere un’impresa finora mai riuscita: mappare l’intero dna di uno dei due individui della Casa del Fabbro, che hanno permesso di ricostruire la sua storia personale e genetica. I resti dell’altra persona, una donna di 50 anni, non sono stati sufficienti per sequenziare l’intero genoma.
Cosa sappiamo dell’uomo di Pompei
“Individuo pompeiano A”, questo il suo nome nell’articolo scientifico, era un uomo di età compresa tra i 35 e i 40 anni, alto circa 1,64 metri. Dall’analisi del suo dna è emersa una significativa variabilità genetica: confrontando i dati genetici dell’uomo pompeiano con quelli di circa 1500 persone euroasiatiche, risulta infatti che esso fosse geneticamente affine alle popolazioni dell’Italia centrale esistenti durante la Roma imperiale, ma non solo. La firma genetica relativa al cromosoma Y e al dna mitocontriale, infatti, riporta caratteristiche presenti solo nelle popolazioni sarde e che si pensa a loro volta derivino da migrazioni avvenute dall’Anatolia (antica regione dell’Asia occidentale, corrispondente a parte della moderna Turchia) durante il Neolitico.
Inoltre le analisi hanno identificato la presenza del dna di Mycobacterium tuberculosis, il microrganismo responsabile della tubercolosi. Studiando anche le sue vertebre, i ricercatori hanno ipotizzato che l’uomo di Pompei fosse affetto dalla malattia di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare in cui il micobatterio si localizza proprio nelle vertebre della colonna, causando dolore, rigidità muscolare e gravi difficoltà nei movimenti.
L’importanza dello studio
In conclusione, oltre ad aver fatto luce sulla storia e sulle origini di questo abitante di Pompei, lo studio ha finalmente dimostrato la possibilità di estrarre e studiare materiali genetici da un sito archeologico unico, che può riservare ancora molto ai ricercatori.
Quello che gli autori dello studio si augurano, infatti, è che le loro analisi genetiche, supportate dall’enorme mole di informazioni archeologiche raccolte nel secolo scorso, possano dare un contributo fondamentale a ricostruire lo stile di vita di questo affascinante (quanto sfortunato) popolo del periodo romano imperiale.