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DEEP è una realtà che sviluppa progetti ambientali per organizzazioni e società che intendono cambiare il proprio approccio riguardo alla salvaguardia dell’ambiente. Ma DEEP sono anche due persone, Clea Irving e James Deutsher, che dopo aver lavorato nella comunicazione e nel sistema moda, hanno deciso di cambiare la percezione di una parola, sostenibilità, che oggi è così usata e abusata da aver quasi perso di significato e ridarle la profondità che necessita.
Dicono: «Troppo spesso i marchi affrontano la questione ambientale attraverso la supply chain, cioè i processi e i materiali e la vita del prodotto post vendita. Quello che noi stiamo cercando di fare è dimostrare che la struttura della sostenibilità deve esistere internamente ai marchi, che devono muoversi verso un’idea di attenzione ambientale sostanziale e a lungo termine. La traiettoria verso una reale sostenibilità dura decenni. Serve un approccio olistico, serve coinvolgere i consumatori in modo più autentico nell’amore e nell’intimità verso l’ecologia. Serve ripulire ciò che è stato fatto, e non solo diminuire l’impatto attuale. Serve chiedersi: tra 20 o 30 anni quale sarà la situazione? Quanta biodiversità sarà rimasta? Quanta acqua pulita avremo? DEEP vuole creare un rapporto consapevole con l’ecologia attraverso la cultura».
Cultura che significa anche, soprattutto, ricerca scientifica. Abbracciare la complessità dei processi in campo, trovare un linguaggio efficace e usarlo per creare una base condivisa basata su dati oggettivi.
«Lavoriamo con i marchi ad esempio mettendoli in relazione con organizzazioni per la conservazione della biodiversità che lavorano sul territorio e al contempo progetti scientifici o tecnologici pensati dai dipartimenti universitari. E curiamo l’intersezione di queste tre organizzazioni perché interagiscano in modo virtuoso per tutti. I marchi hanno i capitali e la volontà di lavorare a progetti utili, le organizzazioni per la conservazione del territorio hanno un know how costruito in decenni e sanno cosa funziona e come coinvolgere le comunità locali in modo responsabile così da lavorare a beneficio sia delle persone che degli ambienti a cui appartengono. E poi la tecnologia, la scienza, servono per aggiungere capacità a quelle organizzazioni per fare cose che non avrebbero mai potuto fare prima per mancanza di mezzi. Spesso vediamo i marchi impegnarsi nella conservazione attraverso un progetto collaterale, o una nota in fondo al loro sito. Noi vogliamo portare quel coinvolgimento in primo piano e consentire al consumatore di capire cosa sta realmente succedendo, se è qualcosa di bello e di vero, o se è solo greenwashing». Il punto è quindi anche insegnare alle persone a leggere tra, o oltre, le righe dei comunicati stampa. «Trascorriamo molto tempo con i consumatori della Gen Z, e sono molto più intelligenti di quanto i marchi pensano. Noi non parliamo di sostenibilità nei nostri progetti, perché è una parola che è stata assorbita dal marketing e usata in modo accondiscendente. Preferiamo ecologia».
Un esempio concreto del loro lavoro è la collaborazione con Rewilding Apennines, che si occupa del ripristino della biodiversità della zona dell’Appennino centrale.
«L’obiettivo non è tornare a uno stato pre-umano, ma permettere alla natura di prendersi cura di se stessa e di reintrodurre i processi naturali che sono stati eliminati a seguito dell’intervento umano con l’introduzione di nuove specie, con le monocolture, con manipolazioni del terreno su larga scala. Rewilding vuole reinserire i vecchi processi naturali e consentire a processi naturali nuovi e inaspettati di emergere e proliferare. La cosa incredibile dell’ecologia e dei processi naturali è che, dati tempo e spazio, hanno un’incredibile capacità di guarire se stessi e di ricalibrarsi. In questo caso stiamo facendo sull’appennino quello che su una scala più grande in tanti stanno cercando di fare in Amazzonia».