venerdì, Dicembre 27, 2024

Dubai, i migliori progetti per cambiare il mondo

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Sheikha Latifa bint Mohammed bin Rashid Al Maktoum, sua altezza reale, sale le scale del Dubai International Financial Center. Di fronte a lei, oltre a una miriade di guardie di sicurezza, sono schierati gli studenti più brillanti del mondo: sono gli ideatori e i realizzatori dei cento progetti selezionati da Prototypes for Humanity, una manifestazione che ogni anno mette in mostra nell’Emirato le innovazioni più interessanti realizzate da laureandi e dottorandi, dalla Svizzera al Lesotho (mancavano i rappresentanti della Cina, che non sono potuti volare a Dubai a causa delle restrizioni anti Covid-19).

Si contanto in totale ottantasei università in rappresentanza di quarantasette paesi e non esiste forse occasione migliore per capire che cosa i più giovani si aspettano dal futuro e come sperano di realizzarlo. Sono ragazzi affacciati su un domani che si fonde con i numerosi allarmi dell’oggi, dal clima alla guerra fino alla pandemia, apparentemente più preoccupati di cercare soluzioni di mera sopravvivenza che di roseo progresso. E lo scenario geopolitico, dopo gli accordi di Abramo del 2020, che hanno normalizzato i rapporti tra Israele, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati, visto da qui sembra dirci che il baricentro mondiale dell’innovazione si allontana sempre più dalla vecchia Europa.

Sconfiggere l’ictus

«Abbiamo notato che il fil rouge che unisce molti progetti è la voglia di salvare vite umane», dice Carlo Rizzo, architetto e urbanista, tra i curatori dell’evento. «Nel farlo, questi studenti immaginano di offrire a tutti, grazie alla tecnologia, la possibilità di vivere off grid, fuori cioè dalle strutture consolidate di governi e istituzioni verso le quali, evidentemente, nutrono poca fiducia». Praticamente nessuno, qui, sogna carriere brillanti in qualche multinazionale. La prospettiva è piuttosto quella di inventare prototipi che possano fare subito la differenza. È il caso di Julio Dantas, 26 anni e studente di Ingegneria Biomedica all’Universidade Federal de Pernambuco, in Brasile. Gli studi vanno un po’ a rilento, ammette, perché nel frattempo la startup Neurobots, di cui è fondatore e Ad, impegnata a creare interfacce cerebrali computerizzate per i pazienti affetti da ictus, ha già diciotto dipendenti e serve duecento cliniche in Brasile, grazie al supporto finanziario dell’Hospital Albert Einstein di San Paolo, il migliore di tutta l’America Latina. «All’inizio studiavo ingegneria dei materiali, ma il mio obiettivo era lasciare un segno più profondo. Per questo mi sono spostato sulle biotecnologie», racconta con una determinazione impressionante, seduto davanti a me sul terrazzo del Dubai International Financial Center. «Fare la differenza è il compito fondamentale della mia generazione», sottolinea convinto. Il progetto selezionato da Prototypes for Humanity si chiama Exobots ed è una cuffia dotata di elettrodi Eeg collegata a un esoscheletro, in grado di riattivare i movimenti delle braccia e delle gambe nella riabilitazione successiva al trauma cerebrale. «Appena il paziente “immagina” di poter muovere gli arti, la zona dove i neuroni sono morti si riattiva immediatamente, come se il movimento venisse compiuto davvero», racconta Dantas.

«A quel punto, l’ordine mentale viene registrato dagli elettrodi e arriva all’esoscheletro, che guida gli arti a compiere l’azione pensata, dando al paziente la sensazione di poter riacquisire la facoltà compromessa». Uno strumento al servizio della neuroplasticità, quindi, capace di allenare la capacità del cervello di creare nuove connessioni laddove le potenzialità appaiono perdute. «Rivoluzioniamo completamente l’approccio alla riabilitazione, che normalmente si sviluppa “dal di fuori”, dal movimento fisico fino al cervello. Noi proponiamo l’approccio inverso: prima la testa, poi il corpo». Tra i tanti progetti della startup Neurobots c’è anche Neurodisplay, una banda a sensori infrarossi da posizionare intorno al capo e collegare allo schermo del computer: non appena, nello svolgimento di qualsiasi attività lavorativa o di studio, si perde la concentrazione, la banda rileva i segnali di funzionalità ridotta e invia immediatamente un segnale allo schermo, che diventa nero, spingendo il soggetto a scuotersi dalla momentanea apatia. «Siamo tutti sottoposti a una quantità di stimoli eccessiva e le facoltà di focalizzazione di ciascuno di noi stanno lentamente diminuendo», osserva Dantas. «Le tecnologie di neurofeedback rappresentano dispositivi di benessere che immaginiamo possano diventare presto presidi medici per combattere l’ansia, i disturbi da deficit di attenzione e iperattività, la depressione. Fino ad arrivare al morbo di Parkinson». Si stima ci siano trecento milioni di depressi nel mondo, con il Brasile in cima a tutte le classifiche. E di certo non c’è spazio per alcun genere di superumano se la mente non è centrata e non è a posto.

Design for ageing

Anche Orion Dai Yuhui, che si diploma quest’anno al master di design engineering dell’Imperial College di Londra, ha cercato una soluzione per chi si sta riprendendo da un ictus.
Nato e cresciuto a Singapore, figlio di una maestra d’asilo e di un ingegnere elettronico, a Dubai ha presentato Omnihuman, che basa la riabilitazione sulla realtà virtuale e sulla flexible robotics, caratterizzata da esoscheletri ergonomici, malleabili e pieghevoli. Il tocco in più è l’utilizzo della musicoterapia per motivare i pazienti a esercitarsi in modo costante: «L’80 per cento non svolge gli esercizi perché li vive come noiosi e ripetitivi», spiega lui. «Quindi, ispirandomi al videogioco Guitar Hero, ho immaginato un visore di realtà virtuale in grado di proiettare nello sguardo la tastiera di un pianoforte. Quando il sistema richiede di premere un tasto e l’impulso motorio non arriva, entro cinquanta millisecondi l’esoscheletro si attiva e completa il compito al posto del paziente». Lo scopo di Omnihuman è rafforzare le connessioni tra corteccia cognitiva e corteccia motoria e, in generale, ricreare ogni tipo di loop cognitivo. «Quando ho iniziato gli studi, il mio obiettivo era essere assunto in una grande azienda come Dyson, che rappresentava il mio sogno professionale» racconta Orion. A volte, però, le vicende personali e familiari fanno cambiare prospettive e disegnano nuove traiettorie «Durante la pandemia, mio zio ha avuto un ictus e nessuno poteva andare da lui a casa per assisterlo. Questo ha cambiato il mio modo di vedere le cose e ora voglio lavorare per gli anziani e per il loro benessere. Il mio futuro si chiama Design for ageing», conclude Orion.

Post mortem

Aura Murillo e Louise Skajem, entrambe 28 anni, laureate a Londra rispettivamente all’Imperial College e al Royal College of Art, sognano un essere umano che, scomparendo, si potenzi fino a fondersi con la natura. Già finalista al premio Terra Carta voluto da re Carlo d’Inghilterra, il progetto Resting Reef trasforma le ossa umane, dopo la cremazione, in materia prima per ricostruire barriere coralline e reef di ostriche, tra i maggiori sistemi  naturali per la cattura di Co2 e preziosi agenti di controllo dell’acidità delle acque. «Le nostre ossa, nella combustione, producono fosfato di calcio, che di fatto è un fertilizzante impiegato anche per rafforzare le radici delle piante», raccontano le due designer. Il fosfato di calcio viene poi mischiato con polvere di gusci di ostriche, utilizzando cemento a basso contenuto di carbonio come aggregante. Da qui nascono piccole strutture solide che immerse in acqua riescono a riattivare il ciclo biologico: prima spuntano le alghe e quindi le prime ostriche, che a loro volta immettono in mare miliardi di spore riattivando il sistema. «L’entusiasmo delle persone, quando scoprono di poter avere un impatto sul mondo anche dopo la propria morte, è impressionante». Anche in questo caso, è stata la vita a dettare le scelte di carriera: per Aura, nata a Città del Messico, la scomparsa prematura del padre, quattro anni fa. Per Louise, cresciuta in un villaggio della Norvegia, il ricordo della forza magnifica della natura: «Ho iniziato lavorando nella moda, ma l’idea che la mia professione potesse impattare negativamente sull’ambiente mi ha dissuasa. Ora voglio che la mia vita sia legata all’interesse pubblico e al bene collettivo», racconta. E, perché no, alla protezione degli esseri umani da tutti i rischi del mondo contemporaneo.

Scanner per pompieri

Sinan Altun, 29 anni, appena laureato presso il master di Industrial Design dell’università svedese di Umeå, ha creato Fuse, uno scanner portatile, simile a una pistola dotata di schermo, che permette ai vigili del fuoco di capire da dove proviene l’energia combustibile in caso d’incendio di veicoli elettrici, eventualità su cui le forze d’intervento di tutto il mondo sono completamente impreparate: «Insegnano loro solo a usare ettolitri d’acqua, ma non a capire da dove proviene la combustione, anche perché in ogni auto o camion, ibridi o full elettric che siano, il sistema di batterie è posizionato in un luogo sempre diverso», spiega lui. Fuse, come una propaggine della mente, si connette con il battery management system del mezzo e, grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, sovrappone le immagini in tempo reale dell’incendio con l’archivio 3D di modelli d’auto caricato nel dispositivo, oltre a dare la possibilità ai vigili del fuoco di scambiarsi le informazioni tramite la laser cross projection.

Uno scudo speciale

Nuove sfide. Scenari inediti. Gli stessi che hanno spinto Ng Yong Pong, detto “Einstein”, 23 anni e studente d’ingegneria meccanica alla Taylor’s University di Subang Jaya in Malesia, a inventarsi uno scudo anti radiazioni facilmente stampabile in 3D: il Radiaton Shield. Studiando la tavola periodica, Pong si è imbattuto in un elemento chimico simile al piombo, ma più leggero, non tossico e dotato di maggiore densità filtrante: il bismuto. L’ha poi ridotto in polvere e miscelato con cristalli di Petg, un materiale plastico reperibile sul mercato, per creare filamenti del diametro di 1,75 millimetri. Infine, ha stampato gli esoscheletri protettivi, dello spessore di 5 millimetri ciascuno. «Sarà possibile usarli sia in ambito ospedaliero, per proteggere dai raggi X pazienti e tecnici, sia in caso di disastro nucleare: il mio scudo non decade molecolarmente neppure se sottoposto a forte calore e resiste fino a 369 gradi centigradi. E tutti i raggi gamma che scaturiscono dal decadimento radioattivo vengono filtrati all’87 per cento». È stata la visione di suo padre che indossava uno scafandro imbottito di piombo per sottoporsi a esami clinici in un ospedale di Kuala Lumpur a fargli venire l’idea: «Quello che desidero è diventare il miglior ingegnere possibile. Quello che voglio, per la mia vita, è creare soluzioni che possano migliorare per sempre il mondo».

Questo è articolo è stato pubblicato su Wired n. 104, ed. Primavera 2023

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