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Midjourney Magazine è arrivato. La pubblicazione, una raccolta di migliaia di immagini generate dall’intelligenza artificiale (Ai) e di “interviste con i membri della comunità di Midjourney“, ha pubblicato il suo secondo numero la scorsa settimana.
Il periodico, 114 pagine in stile coffee table book in vendita a 4 dollari, è zeppo di immagini accattivanti ed eccentriche e poco altro. C’è giusto un’intervista di otto pagine – condotta da un essere umano – al designer Bob Bonniol. Ma ha parte questo, il magazine ha pochissime idee.
La rivista è composta da pagine e pagine di immagini di qualità e genere variabili, raggruppate grossolanamente in base al tema e corredate di una didascalia che riporta il prompt utilizzato per generarle, l’essere umano che l’ha inserito e la data in cui è stato interrogato Midjourney, la piattaforma di Ai generativa da cui sono tratti i contenuti della rivista. (Midjourney è anche l’azienda che ha sviluppato lo strumento e l’editore di Midjourney magazine).
Una foto che ritrae di profilo un cyborg femminile assorto nei suoi pensieri, con una pelle metallica lucida e riflettente, che guarda pudicamente verso il basso fuori dall’inquadratura si trova sulla stessa pagina di quello che si può solo descrivere come un disegno scartato per una statuetta di Warhammer. Il filo rosso che unisce le creazioni sembra essere “non umano” e “un po’ sconcertante“.
A volte si va fuori tema. A un certo punto nella rivista ci si imbatte in tre gatti in accappatoio che fanno tai chi in un cortile pieno di bonsai, di fianco alla pagina in cui campeggia l’immagine di un uomo sul marciapiede della Grande Mela, che non sfigurerebbe su un blog come Humans of New York.
È un’opera notevole da sfogliare. Ma se si inizia a cercare qualcosa di più, il magazine risulta piatto: “Sembra una normale rivista patinata, con belle immagini e un layout semplice“, racconta Michelle Pegg, cofondatrice di Curate Creative, un’agenzia creativa nel Regno Unito.
Personalmente, mi trovo d’accordo. In parte, però, la mia opinione potrebbe essere un esempio della vecchia storia della volpe e l’uva: lavoro in un settore che storicamente ha fatto affidamento sulla capacità di vendere le riviste come un prodotto di lusso, accuratamente selezionato per i lettori. Il motivo per cui sono così costose è che, con la scomparsa degli introiti pubblicitari che sovvenzionavano molte testate, gli editori non hanno voluto lesinare sugli standard. I photo editor costano, come costano anche giornalisti, redattori e fact-checker.