giovedì, Aprile 10, 2025

Salvate il Soldato Ryan: dopo 25 anni rimane il war movie definitivo

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25 anni di Salvate il Soldato Ryan, una di quelle pellicole che tutti abbiamo visto, qualcuno più di una volta, forse l’apice cinematografico per ciò che riguarda la generazione gloriosa al cinema.
Erano quei ragazzi americani cresciuti durante la Grande Depressione, che finirono con un fucile in mano a liberare la fortezza Europa dal nazifascismo, diventarono il simbolo di una vittoria del bene contro il male, sulla quale, a distanza di tanti anni, a dispetto di tanto revisionismo, rimane difficile poter cambiare un giudizio storico e morale. Ma davvero il film di Steven Spielberg è così grande e importante come lo ricordavamo?

Un modo completamente nuovo di mostrarci la guerra

Steven Spielberg con Salvate il Soldato Ryan ci prende per mano, ci lascia di sasso con i primi 20 minuti che sono tra le sequenze più innovative, audaci, crude e coinvolgenti della storia della cinematografia. Omaha Beach, la più letale delle cinque spiagge scelte in quel 6 giugno del 1944 dagli alleati, è dove il capitano John Miller ed i suoi Rangers vengono scaricati, letteralmente in bocca alle mitragliatrici e alle artiglierie tedesca. Salvate il soldato Ryan ricrea quel massacro disperato come un turbinio dinamico (ma mai compiaciuto) di carne, sangue, proiettili e sabbia, lo fa dandoci un’idea che tanto più in realtà slegata dalla verità storica, quanto capace di sublimare l’essenza stessa dello scontro bellico così come era stato concepito a suo tempo da Georg Wilhelm Pabst in Westfront: la negazione stessa della logica, dell’umanità come essenza razionale. Il nemico è ovunque e in nessun luogo, si avanza per retrocedere, destra e sinistra scompaiono, alto e basso non hanno più senso, contano solo i proiettili, i corpi dilaniati, l’istinto pure e semplice che da quei soldati, carne da cannone di fronte ai tedeschi, arriva a noi.
Lo fa generando una capacità di immedesimazione nell’orrore e nella paura che fino a quel momento non era mai stata tanto più forte per un film bellico. Un caso forse? No, del resto Steven Spielberg questa capacità l’ha sempre avuta, fin dai tempi de lo Squalo, per poi passare ai suoi racconti su Dinosauri tornati in vita, le sue magiche avventure aliene, gli ebrei salvati da Oscar Schindler.

Non si parlerà mai abbastanza di quanto nessun altro regista vivente sia capace come lui di creare questo legame emotivo nel pubblico, di suggerire un’esperienza universale che per quanto sfumata, rimane fautrice di un’immedesimazione totalizzante. Il tutto partendo da quella spiaggia, in realtà molto diversa da come Spielberg l’aveva rappresentata: non c’era sabbia ma ciottoli, se possibile ancora peggiori, perché risucchiavano piedi e cingoli, l’assalto durò diverse ore, il bombardamento navale ravvicinato fu un fattore chiave. Riprese difficili, complesse per Spielberg, tanto che Tom Hanks diventò quasi un sindacalista delle comparse costrette a stare per ore nell’acqua, come lui che del resto.

Il 9 giugno 1993 Steven Spielberg mostrava al mondo un film capace di rivoluzionare il concetto di fantasia e intrattenimento nel cinema

Salvate il soldato Ryan dal punto di vista cinematografico diventa anche uno dei primi esempi di training specifico attoriale. Hanks, Burn, Sizemore, vengono addestrati da Dale Dye, ex reduce del Vietnam, caratterista proficuo. Vestono come quei ragazzi, imparano a maneggiare armi, ad ubbidire, conoscono lo stress da trincea. “Forse gli davo una tazza di caffè a fine giornata, forse no” ricorderà Dye “volevo avessero quello sguardo, quello che io conoscevo, quello dell’uomo che ha visto l’inferno”. Anche per questo Salvate il Soldato Ryan è una sorta di viaggio nel tempo unico nel suo genere, la cui influenza è stata tanto monumentale da chiedersi addirittura se sia stata semplicemente positiva o se non vi sia anche qualcosa di negativo da affrontare.

L’universo videoludico, la serialità televisiva, anche il resto della cinematografia bellica venuta successivamente, hanno dovuto fare i conti con questo film. Salvate il soldato Ryan è una sorta di road movie, con quel gruppo di soldati che è un microcosmo rappresentativo della società dell’epoca. Ognuno ha un carattere diverso, ognuno affronta in modo diverso quella missione di salvataggio. James Francis Ryan (un giovanissimo Matt Damon) è la ragione per la quale devono obbedire e morire, come ricorda tutti il timido caporale Upham, forse il personaggio più interessante del film, lo sguardo dello spettatore che si fonde con uno scribacchino che è finito nel carnaio dell’invasione più mastodontica della storia dell’umanità. Spielberg pone un sacco di domande, non sempre dà risposte, sa di non poterlo fare. Quanto vale la vita di un uomo ? Più o meno di quelle dei suoi simili? Cos’è la Guerra? Può essere giusta o avere un senso oppure è una chimera? Siamo ciò che siamo con un fucile in mano, uccidendo i nostri simili qui, oppure a casa, insegnando letteratura come il capitano John Miller? Miller che ha piange in silenzio gli uomini che perde, mai di fronte agli altri, perché è un comandante si sa, non può mai apparire debole. Il che ci porta poi alla deduzione finale, circa la natura di un film esteticamente straordinario, innovativo a livello tecnico: è un film sulla guerra vista dagli americani e solo loro.

Un film perfetto?

Salvate il Soldato Ryan deve molto ad altri film venuti precedentemente, su tutti il Grande Uno Rosso dell’indimenticato Sam Fuller, ma poi anche Stalingrad di Bondarčuk, Va e Vedi di Klimov, il già citato Westfront. Steven Spielberg mostra, non spiega, usa il suono, gli sguardi, usa la camera da presa per prenderti per lo stomaco, portarti lì, dentro Ramelle, dove si muore come cani tra i palazzi, con Jackson che prega per la sua stessa anima prima di toglierla agli altri, anche su quella spiaggia dove non esiste colpa o merito, la morte arriva in modo tanto casuale quanto indefinito. Quindi Salvate il Soldato Ryan è un film perfetto? No, siamo onesti, Steven Spielberg si ferma un passo prima, il finale, per quanto terrificante nella sua natura di guerriglia urbana mai girata, riabbraccia l’omaggio alla generazione gloriosa che diventa retorica. Si riporta in auge l’eroismo che sottrae veridicità ad uno scontro in cui l’americano diventa di nuovo invincibile, superiore al tedesco per missione divina. I tedeschi qui sono semplicemente nemici, sono bersagli da abbattere, sono un vigliacco per la cui morte poi alla fine si arriva a godere. La resistenza è totalmente assente, i civili francesi sono solo sullo sfondo, l'”arrivano i nostri” finale è tanto ben accolto quanto, ad uno sguardo freddo, ostacolo verso un qualcosa che fosse meno americano. Come capitato anche in altri suoi film, per Spielberg l’estetica diventa significante, diventa elemento principe del grande spettacolo cinematografico.

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