mercoledì, Gennaio 15, 2025

Robin Hood – un uomo in calzamaglia è stato qualcosa di unico

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I 30 anni di Robin Hood – un uomo in calzamaglia sono qualcosa di più di un numero, ci ricordano quanto il cinema comico è cambiato, quanto una volta era più facile ridere, ma soprattutto indicano un passaggio di consegne. Mel Brooks ha fatto la storia della commedia americana, quella connessa al cinema che sbeffeggiava sé stesso, dopo sarebbe venuto il dominio delle demenzialità, erede semantica. Eppure, ripensare a Bellosguardo, Etcì, Will Rossella O’Hara, Brutthilde e Don Giovanni, significa riabbracciare uno dei quei film che oggi mancano terribilmente al nostro panorama.

L’ultimo acuto del regista simbolo della parodia

Robin Hood – un uomo in calzamaglia è un film degli anni ’90 e solo degli anni ’90. Partiamo da questo presupposto e nessuno si farà del male nel ricordare questo trionfo della risata popolare crassa, un pelino anche pecoreccia ed infantile, che tanto bene andò al botteghino e tanto fece storcere il naso alla critica dell’epoca. Mel Brooks, da buon rapace, tornò sul luogo del suo misfatto preferito: prendere un grande film di successo e deformarlo in modo adorabile, creativo, irresistibile e “basso” quanto bastava, per toccare l’irriverenza a lui più cara. Brooks ci era già riuscito con film come Balle Spaziali (bellissima parodia del genere sci-fi) e soprattutto con quel capolavoro di Frankenstein Jr., forse il miglior film del suo genere di sempre. Ma poi l’elenco non può che comprendere anche Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco, La Pazza Storia del Mondo, tutti film fissatisi nell’immaginario collettivo grazie ad un’ironia incontenibile, gag e trovate folli e demenziali. Demenziale, questa parola ha avuto in Brooks e soprattutto nel suo Robin Hood, l’ultima grande prova, l’ultimo grande film, prima di cedere lo scettro alla demenzialità teen di quel decennio.

Mel Brooks ne aveva fatta di gavetta, dalla televisione alla stand up comedy, diventando un punto di riferimento per la risata, quella che cambiava e mutava, che si adattava ad un pubblico sempre più giovane, sempre più desideroso di novità e irriverenza. Aveva conosciuto dolorosi fiaschi al botteghino all’inizio, poi prese le grandi praterie di John Ford e ci ficcò dentro uno sceriffo di colore assieme a Gene Wilder e si prese gioco di Hollywood, della società americana bigotta e conservatrice. Era il 1974 e Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco veniva seguito di lì a poco da quel Frankenstein Jr., con cui Brooks portò ad un livello di raffinatezza il concetto di omaggio e decostruzione del mito.

Esattamente 35 anni fa usciva uno dei più grandi successi di Eddie Murphy, un cult capace di sdrammatizzare il peggio della società americana degli anni ’80

Di base il suo percorso registico è sempre stato connesso al passare da un genere all’altro usandone i topoi per desacralizzarlo. Capitò con il Gary Cooper diventato simbolo di eroismo, successe con l’horror del cinema classico. Erano del resto gli anni ’70, il pubblico era specchio di una contestazione che metteva a soqquadro la società ed i suoi ideali, si cercava di sbeffeggiare il conformismo che aveva nella classicità artistica una propria immagine speculare. Non un caso che anche Woody Allen (autore che Brooks conosceva bene) cominciasse proprio allora anche grazie a lui il suo percorso vincente.

In quegli anni ‘90 c’è un nuovo divo in città, si chiama Kevin Costner, è un mix tra lo charme del vecchio Cooper e un Erroll Flynn nuova maniera, piace tantissimo alle donne e rastrella miliardi ovunque. In quegli anni Costner ha messo a segno colpi incredibili con Gli Intoccabili di De Palma, Bull Durham, Revenge, con Balla Coi Lupi ha toccato il cielo con un dito. Il suo sodalizio artistico con Kevin Reynolds lo porta ad indossare i panni di Robin Hood, il Principe dei Ladri, l’arciere per antonomasia. Al cinema è stato interpretato da Douglas Fairbanks, Erroll Flynn, Sean Connery, è stato un film animato Disney e nessuno pensava si potesse dire qualcosa di meglio e invece eccolo, con al fianco Morgan Freeman, di ritorno dalla Terra Santa che si trova di fronte ad uno Sceriffo, che Alan Rickman rese un villain meraviglioso. Critica tiepida ma pubblico entusiasta: 400 milioni di dollari e tanti saluti. Mel Brooks annusa l’aria e capisce che di fronte ad un successo così clamoroso, una parodia è l’occasione perfetta per sfornare un film che non prenderà di mira solo Costner, ma tutto il filone legato all’arciere di Sherwood. Il risultato finale si conquisterà il rango di cult assoluto di quel decennio, ma aprirà anche la strada ad un nuova concezione di comicità, poi durata fino agli ultimi, terribili, anni.

Un mix geniale di gag che fece la storia del genere

Ad essere sinceri, Mel Brooks già ci aveva provato con Robin Hood. L’anno era il 1975 ed in tv andava in onda Le rocambolesche avventure di Robin Hood contro l’odioso sceriffo. Buon successo, tante idee che Brooks riprende mentre fa di Cary Elwes, il fu Westley de La Storia Fantastica, sostanzialmente l’alter ego di Costner, Fairbanks, insomma di ogni divo diventato il tizio in calzamaglia che prendeva a frecciate chiunque. Scritta assieme a Evan Chandler e J. David Shapiro, la sceneggiatura del film oltre ad Elwes, quasi migliore di Costner come Robin Hood, nobilitò appieno le performance di Richard Lewis e Roger Rees. Il primo fu un pecoreccio e tonto Principe Giovanni, il secondo uno Sceriffo che per quanto simile a Rickman, univa in sé caratteristiche più vicine a quelle di un Willy il Coyote o l’Ispettore Zenigata. Era in parole povere uno sfigato che cercava di catturare il protagonista, reso sovente volutamente antipatico o insopportabile, con il suo ridicolo contegno e l’idiozia che pareva contagiare chiunque gli stesse intorno. Brooks crea una serie di gag geniali, permette a Dave Chapelle (oggi uno degli stand up comedian più bravi del mondo) di omaggiare la rinata black culture, l’hip hop e gli idoli del ghetto nell’unico modo che concepiva: parodiandoli.

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