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Adagio è un film di pistole, sia chiaro, uno di quelli in cui non c’è un briciolo di bontà eppure ogni personaggio ha la sua condotta, il suo codice, la sua moralità, a diversi gradi di meschinità, e nel quale prendere le parti è molto complicato. Stefano Sollima (che scrive e dirige) e Stefano Bises (che scrive) organizzano un ping pong per gli spettatori per farli passare continuamente dalla partecipazione all’odio per i personaggi e sorprenderli con Mastandrea non vedente, Servillo che parla romano, Favino completamente glabro, facendo fatica a riconoscerli e collocarli. Su tutti però domina il dinamismo dell’inarrestabile Adriano Giannini, vero demone cittadino che pare essere ovunque mentre al telefono protegge i figli, assicurandosi che portino avanti le loro vite senza accorgersi di cosa fa lui.
Adagio è un film di strada nel senso stretto, girato nei vicoli, in adorazione di Roma come tessuto urbano, non come città di monumenti ma come città di periferie e angoli di strada, di parchetti e palazzoni, in cui le persone sono infami. C’è una geniale perizia nell’assicurarsi di continuo che lo spettatore si renda bene conto in ogni momento di stare guardando la storia dal punto di vista dei peggiori. Se un personaggio si dimostrerà buon padre poi farà qualcosa di terribile, se invece sembrerà poter essere la salvezza del ragazzo in fuga, poi si comporterà da padre ignobile (la paternità, non è difficile da capire, è un tema importante). Come se in questa storia tutto fosse condannato ad essere sempre sbagliato e, come sempre in Sollima, non esista un ordine, non esistano forze dell’ordine, tantomeno religione o consolazioni di sorta. Esistono solo le persone, maledette e bastarde, con cui avere a che fare. Chi altro fa film così oggi in Italia? Così privi di qualsiasi sudditanza per le istituzioni?
Esattamente di chi sia questa storia e quali personaggi siano quelli cruciali lo capiremo poi sulle immagini finali, con una grande idea di scrittura e poi di regia. Di certo rimane un film dominato dagli attori italiani più famosi e noti, finalmente fuori dalle loro parti abituali, finalmente a disagio e quindi spinti a qualcosa di nuovo. C’è qui una delle migliori scene dure, di tensione e di violenza con protagonista Toni Servillo e un coltello, c’è una sparatoria letteralmente dominata da Valerio Mastandrea e pure Pierfrancesco Favino, che in ogni film in cui recita si impegna come se fosse l’ultimo della sua carriera, sembra aver fatto gli straordinari, inventandosi un tipo romano mai visto al cinema, ad un grado di ignoranza ancora inferiore rispetto ai già abbastanza infami compagni, un vero gorilla coatto, pericolosissimo e con un cuore gigantesco pieno di cicatrici.