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Se qualcosa sembra questo film di Polanski è quindi un aggiornamento delle vecchie commedie nel segno dei film di Ruben Ostlund come The Square o Triangle Of Sadness, la quintessenza delle commedie d’autore contemporanee. A scanso di equivoci: Polanski non vuole giocare nel terreno di Ostlund, non vuole qualcosa di realmente sofisticato, semmai vuole aggiornare l’umorismo guardando a quello lì, vuole divertirsi un po’ con un film estremamente leggero che rida di ciò che, evidentemente, fa ridere anche lui. E per una gran parte di The Palace ci riesce, come quando dà una spallata all’attualità, mostrando il discorso di insediamento che proprio in quel giorno, il 31 dicembre del 1999, pronunciò Vladimir Putin introdotto da Boris Yeltsin. Sono le immagini reali e solo per la maniera in cui sono posizionate nel film (e per come parlano dell’oggi) fanno ridere.
Al netto di una fattura che sconta budget non stellari (alcuni momenti dell’hotel visto da fuori, costruito in computer grafica, gridano vendetta), il lavoro sugli attori e su un umorismo decisamente popolare nelle trovate ma molto sofisticato nell’esecuzione, è di primo livello. The Palace aggiunge infatti alla commedia viennese classica una fortissima critica sociale. Quel genere nasceva per far ridere le élite di se stesse, con garbo, era fatto di personaggi sofisticati e amori cortesi tra classici servitori sciocchi o nobiluomini scemi. Era un genere di parola che al cinema è stato reso alla perfezione da Ernst Lubitsch. Ora, quasi 90 anni dopo quelle commedie, Polanski non ride dei ricchi con i ricchi e per i ricchi; ride dei ricchi per chi ricco non è. Li ritrae come mostri della chirurgia con corpi che non fanno che tradirli.