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EJ Dickson, autrice del pezzo, si interroga sui motivi del successo di questi format e soprattutto sulla necessità preoccupante di crearne di fittizi. Come quando rimaniamo ipnotizzati di fronti agli individui inconsulti che vengono rimossi dagli aerei o quando, all’apice della pandemia, rimanevamo fissi a guardare quelli che protestavano per l’obbligo delle mascherine o di altri divieti, c’è un mix di voyeurismo e rivendicazione: ci sentiamo in qualche modo “nel giusto” nel vedere persone che si comportano molto peggio di noi, e in qualche modo esporsi al web offre loro già una prima punizione sommaria. Però appunto questo tipo di video solletica i nostri istinti più bassi, il nostro desiderio di vedere quanto in basso possa scendere la gente e quanto migliori possiamo sentirci di conseguenza.
Ma la replica continua di questi trend, addirittura inscenandone situazioni fasulle, mostra come quella fabbrica di contenuti continui che è diventato per esempio TikTok spinge a premiare i contenuti più sensazionalistici, chiassosi e provocatori: vogliamo, in qualche modo, vedere “scorrere il sangue” e questo è incentivato dalle piattaforme online che ci desiderato inchiodati davanti allo schermo il più possibile. Le finte Karen, poi, secondo Dickson pongono un problema ulteriore, quello cioè della cosiddetta media literacy, alfabetizzazione dei media. Siamo sicuri di riuscire a distinguere un video con una vera Karen da uno che invece è stato costruito a tavolino? E questa difficoltà nel distinguere tra vero e falso non vale forse anche per ambiti molto più seri, come per esempio le notizia sanitarie o dal fronte di una guerra? Le Karen, vere o finte che siano, ci mettono di fronte ai limiti più lampanti di una sovraesposizione di contenuti indistinti e al contempo ci ribadisce come siamo anche noi parte di un meccanismo di indignazione succulento e senza scampo. Perché, in fondo, ogni tanto siamo Karen anche noi.