sabato, Dicembre 21, 2024

Underworld, il magnifico guilty pleasure vampiresco compie vent'anni

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Underworld compie vent’anni ed è uno di quegli anniversari che oltre a far sentire vecchio ogni millennial, ci ricorda quanto è cambiato il mercato audiovisivo, quanto questa hit a sorpresa di quel settembre del 2003, sia stato uno degli ultimi prodotti teen a tinte forti. Cocktail di temi e stili tanto grossolano quanto efficace, Underworld rimane uno degli ultimi momenti del cyberpunk cinematografico e di un certo modo di guardare al pubblico giovanile. Fu qualcosa di audace, fantasioso, connesso al mondo videoludico così come ai comics, eppure artisticamente personale al di là di ogni palese limite.

Il successo di un fanta horror che nessuno si aspettava

Underworld rimane ad oggi uno dei franchise più strani e in un certo senso misteriosi del XXI secolo. Cominciato esattamente 20 anni fa, arrivato ad un successo commerciale tanto inaspettato quanto roboante, rilanciò in modo decisivo la carriera di Kate Beckinsale, fornendo a Len Wiseman un’occasione per mostrare il meglio e assieme il peggio della sua essenza di alter ego di Paul W. S. Anderson, la mente dietro un altro franchise guilty pleasure simbolo di quegli anni: Resident Evil. Underworld era nato dalla volontà di Nick Reed, agente sia di Wiseman che dello sceneggiatore e stuntman Danny McBride, che li fece incontrare, sicuro (così dichiarò all’epoca) che potesse nascere qualcosa di interessante. Ci sarebbe il piccolo particolare dell’accusa di plagio mossa dalla White Wolf Inc., che trovò qualcosa come 80 punti in comune tra ciò che i due rivendicarono come propria creazione, e ciò che serie videoludiche come quella di “World of Darkness” e i romanzi fantasy di Nancy A. Collins contenevano ad inizio anni ’90. Underworld, mega-produzione internazionale tra USA, Regno Unito, Ungheria e Germania, era un palese mix di elementi narrativi che il pubblico conosceva bene, dai videogiochi più in voga in quegli anni, fino alla mitica serie tv Buffy, per non parlare di anime e fantasy gotico. Il segreto, come in molti altri casi simili, fu quello di unire ingredienti canonici e in fondo familiari, creando un prodotto finale che aveva tutto per conquistare non solo il pubblico di nicchia, ma anche quello trasversale.

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Tuttavia, guardando ad Underworld, bisogna ammettere che si è trattato soprattutto di uno degli ultimi prodotti forti per il pubblico più “teen”, con una dosa di violenza e gore così sfacciatamente esagerata. Solo l’anno prima era uscito Blade II, perla firmata da Guillermo del Toro, anch’essa connessa profondamente al genere cyberpunk, all’horror di nuova generazione, al fantasy, ma soprattutto alla volontà di abbracciare la narrativa classica. E per narrativa classica, se nella saga di The Matrix i riferimenti sono stati incredibilmente complessi e sfaccettati, parlare del Diurno così come di Selene, che si fa strada armata di anfibi e pistole, significa bene o male parlare soprattutto di William Shakespeare. Blade era connesso in parte all’Amleto e Coriolano, Underworld era sfacciatamente una sorta di rielaborazione del Romeo e Giulietta. Solo che invece di rose, di Verona, di Capuleti e Montecchi, avevamo una secolare guerra tra vampiri e licantropi, tra gli aristocratici succhiasangue e proletari sacchi di pulci. Ci si faceva a pezzi a forza di morsi, artigliate, colpi d’arma da fuoco, ma anche di armi biotecnologiche e chimiche, insomma Underworld sposava la dimensione atavica di un odio secolare, con la modernità di un conflitto che, in tutto e per tutto, era figlio illegittimo non solo del genere distopico, ma anche del vero presente post 11 settembre. In questo mix verosimile di passato e futuro, commistione tra sci-fi, fantasy, melodramma, horror, cinema di arti marziali e cyberpunk, il film di Wiseman colse perfettamente nel segno.

La fine del concetto di intrattenimento teen autoriale

Anche i più detrattori della saga di Underworld, non potranno negare che i personaggi fossero indovinatissimi. Kate Beckinsale, piccola, minuta, monumento all’eterna preppy, si rivelò una Selene fantastica. Di fatto è stata assieme alla Alice della Jovovich e alla Trinity di Carrie-Ann Moss, una delle grandi eroine femminili di quegli anni, incredibilmente più efficace delle contemporanee colleghe nazi femministe a dir poco insopportabili. Rese questa guerriera una vera e propria serpe urbana, animata da una volontà di vendetta ed abilità, che in un certo senso anticiparono (anche coreograficamente) ciò che poi ci sarebbe stato donato da John Wick e soci. Solitaria, inseguita da un passato doloroso, era immersa in un mondo che pareva una sorta di corte Rinascimentale, fatta di intrighi, tradimenti, cospirazioni. Un’intera generazione di ragazzi si innamorò perdutamente di lei, a cui fecero da spalla un glaciale Bill Nighy nei panni del padre adottivo-villain e un Michael Sheen capellone e ribelle, antieroe licantropo a cui sarebbe stato dato altro spazio in uno spin-off assolutamente dignitoso. Forse a trovarsi più limitato fu Scott Speedman, promessa mai mantenuta fino in fondo, che nel ruolo di Romeo-Neo-Michael Corvin, finì bene o male schiacciato e limitato. Si sarebbe rifatto parzialmente nei seguiti, che di fatto andarono verso un abisso di mediocrità, a tratti ridicolaggine, semplicemente incredibile. Perché, ed è questo il punto, Underworld è stato l’inizio di un franchise tra i più evitabili di sempre, fossili viventi analogici che si aggiravano nel mondo digitale.

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