sabato, Dicembre 21, 2024

Estinzione, quanto ha contribuito l'uomo negli ultimi 500 anni

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L’inquinamento, il boom demografico, l’agricoltura intensiva, i cambiamenti climatici e la drastica riduzione delle risorse non rinnovabili hanno proiettato l’umanità nell’era della sesta estinzione di massa, la prima imputabile a cause antropiche. Le attività umane portano alla scomparsa delle specie animali vertebrati a velocità molto più rapide del loro ritmo naturale di estinzione: esistono gruppi che stanno scomparendo 35 volte più velocemente della media. Fino ad oggi l’interesse scientifico e quello dell’opinione pubblica si è prevalentemente concentrato sull’estinzione delle specie, ma nel loro nuovo studio il professor Gerardo Ceballos, dell’Universidad Nacional Autónoma de México, e Paul R. Ehrlich, del Centro di Biologia della Conservazione dell’Università di Stanford, hanno scoperto che “interi generi stanno scomparendo”, in quella che hanno definito una “mutilazione dell’albero della vita”.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), rileva come almeno 73 gruppi di specie di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi si siano estinti dal 1500 ad oggi. Se le tendenze avessero invece seguito i tassi di estinzione medi pre-umani, soltanto due gruppi sarebbero effettivamente scomparsi. Per raggiungere i risultati riscontrati in mezzo secolo, in assenza dell’uomo, ci sarebbero dovuti volere in realtà 18mila anni.

Generi e specie

La ricerca fa una distinzione importante e si concentra sui “generi”, la classificazione tassonomica al di sopra di quella delle specie. Cavalli e zebre, per intenderci, appartengono allo stesso genere, così come cani, lupi e coyote. Ceballos e Ehrlich si aspettavano che i generi avessero un tasso di estinzione inferiore rispetto alle singole specie, ma hanno notato che questi sono invece molto simili. Tra i generi ormai perduti per sempre ci sono gli uccelli elefante del Madagascar, il moa della Nuova Zelanda e gli uccelli mangiatori di miele moho hawaiani. Anche il piccione migratore, la tigre della Tasmania e il delfino Baiji del fiume cinese Yangtze sono tra le vittime più “famose” della sesta estinzione di massa, e rappresentavano l’ultima specie esistente dei loro rispettivi generi.

Quando una specie si estingue, ha spiegato Ceballos, altre specie del suo genere possono spesso ricoprire almeno in parte il suo ruolo nell’ecosistema. E poiché quelle specie portano gran parte del materiale genetico dei loro “cugini” estinti, ne conservano anche il potenziale evolutivo. Cosa che non accade con la scomparsa di un genere. Fenomeno che, a causa della distruzione degli habitat, della crisi climatica e del commercio illegale di animali selvatici, si prevede in rapido aumento nei prossimi anni. Nello scenario peggiore – ovvero che tutti i gruppi di specie attualmente in pericolo scompaiano entro la fine del secolo – il tasso sarebbe 354 volte superiore alla media dell’ultimo milione di anni.

Le conseguenze dell’estinzione

Ciò avrebbe implicazioni catastrofiche: la stabilità della nostra civiltà dipende fortemente dall’equilibrio della biodiversità della Terra. Lo studio cita ad esempio la crescente prevalenza della malattia di Lyme, patologia infettiva di natura batterica trasmessa dalle zecche: i topi dai piedi bianchi, i principali portatori della malattia, erano soliti competere con i piccioni migratori per il cibo, come le ghiande. Con la scomparsa dei piccioni e la diminuzione dei predatori come lupi e puma, i topi sono aumentati e, con loro, i casi di trasmissione umana della malattia di Lyme.

La perdita di generi potrebbe anche esacerbare la crisi climatica, dalla quale è a sua volta causata. Ehrlich sottolinea che “il cambiamento climatico sta accelerando l’estinzione e l’estinzione sta interagendo con il clima, perché la natura delle piante, degli animali e dei microbi sul pianeta è uno dei grandi determinanti del tipo di clima che abbiamo”. Le dimensioni e la crescita della popolazione umana, così come la scala crescente dei suoi consumi e il fatto che questi siano regolati da meccanismi ingiusti, rappresentano secondo gli autori dello studio aspetti da non sottovalutare: “L’idea che si possano portare avanti queste cose e al contempo salvare la biodiversità è folle spiegano Ceballos ed Ehrlich – come immaginare di sedersi su un ramo e segarlo allo stesso tempo”.

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