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Tempo di fisicaccia. Monika Schleier-Smith, scienziata della Stanford University, in California, sta lavorando a un setup sperimentale per cercare di creare lo spazio-tempo, ossia il “tessuto” a quattro dimensioni (tre spaziali e una temporale, per l’appunto) di cui è fatto il nostro Universo, in laboratorio, dal nulla. Intervistata dal New Scientist, Schleier-Smith si è detta convinta che la sua ricerca, collegata alla cosiddetta congettura del principio olografico (ci torneremo tra un attimo), abbia “il potenziale per svelare come il comportamento delle entità che operano su scale spaziali ridottissime faccia ‘emergere’ lo spaziotempo”. Qualsiasi cosa significhi.
Alla ricerca della gravità quantistica
Per (cercare di) comprendere il lavoro di Schleier-Smith dobbiamo cominciare ricordando i due pilastri della fisica moderna, ossia la relatività generale di Albert Einstein e la meccanica quantistica. La prima spiega il comportamento della gravità in termini di una sorta di deformazione dello spazio-tempo, mentre la seconda descrive il comportamento di particelle su scale spaziali microscopiche. Separatamente, meccanica quantistica e relatività generale funzionano alla perfezione, ed entrambe sono state (e continuano a essere) verificate sperimentalmente con precisione sempre maggiore. Il problema è che quando i fisici provano a inserirle in un unico quadro teorico, ad armonizzarle in una teoria generale che descriva anche la gravità in termini quantistici, le cose smettono di funzionare. Tre delle quattro forze fondamentali (l’elettromagnetismo, la forza forte e la forza debole) sono state infatti “unificate” e “quantizzate”, e per ciascuna di esse è stato individuato un mediatore, cioè una particella quantistica responsabile della trasmissione della forza stessa; questo invece non è ancora avvenuto per l’altra forza fondamentale, la gravità, per l’appunto: la ricerca del cosiddetto gravitone, l’ipotetica particella che dovrebbe mediare la gravità, si è finora rivelata infruttuosa – anche perché la gravità è la più debole di tutte le forze fondamentali (anche se il suo raggio di azione è enormemente più grande), ed è dunque “nascosta” dalle altre.
Stringhe e ologrammi
Una delle possibilità esplorate dai fisici per cercare di quantizzare la gravità è la cosiddetta teoria delle stringhe, secondo la quale (semplificando parecchio) ogni particella sarebbe la “manifestazione” delle diverse vibrazioni di entità monodimensionali chiamate, per l’appunto, “stringhe”, in grado di propagarsi nello spazio e nel tempo e di interagire tra loro. Il gravitone corrisponderebbe proprio a un particolare modo di vibrazione delle stringhe. C’è da dire, però, che al momento la teoria delle stringhe resta soltanto una (bella) congettura matematica, non solo mai verificata sperimentalmente, ma per la quale è addirittura impossibile, secondo molti esperti, anche soltanto pensare a un esperimento.
Veniamo così al principio olografico, una congettura proposta per la prima volta da Gerardus t’Hooft, sviluppata da Leonard Susskind e collegata alla teoria delle stringhe dal giovane fisico Juan Maldacena nel 1997. Attenzione: anche in questo caso, si tratta (almeno per il momento) di una congettura matematica del tutto ipotetica, per di più applicata a un “Universo modello” con una geometria abbastanza diversa rispetto a quella del nostro. Maldacena, in particolare, si è basato su due considerazioni. La prima riguarda, per l’appunto, la teoria delle stringhe, e in particolare l’ipotesi del fisico Alexander Polyakov, che fu tra i primi a rendersi conto che per far tornare i conti le ipotetiche stringhe dovrebbero vivere in un Universo con più di quattro dimensioni (le versioni più moderne della teoria presuppongono un Universo ad almeno dieci dimensioni). La seconda ha invece a che fare con i buchi neri, e nella fattispecie con la teoria sviluppata da Stephen Hawking e colleghi secondo la quale la quantità di informazione che si può teoricamente “impacchettare” dentro un buco nero dipende dall’area dell’orizzonte degli eventi (la “superficie visibile” del buco nero) e non dal volume del buco nero stesso. È un po’ come se dicessimo che il numero di caramelle che possono entrare in un barattolo dipende solo dall’apertura del barattolo e non dalla sua capacità: è controintuitivo, ma a quanto pare è così che funzionano i buchi neri.
In ogni caso, mettendo insieme queste due informazioni (il fatto che il nostro Universo sia equivalente a un mondo deca-dimensionale fatto di stringhe e che tutta l’informazione contenuta in un buco nero a tre dimensioni risiede nel suo orizzonte bidimensionale degli eventi), Maldacena arrivò a pensare che forse, forse, il nostro Universo potrebbe essere la proiezione olografica di una realtà a meno dimensioni. Per dirlo con le sue parole: “È come se l’Universo stesse dentro una scatola, e sulla superficie della scatola fosse inciso tutto il suo contenuto”. Per quanto strana e astrusa possa sembrare, questa idea è piaciuta molto ai teorici delle stringhe e della relatività generale, soprattutto perché tra le sue implicazioni – e qui torniamo alla domanda di partenza – c’è il fatto che anche la gravità sarebbe una sorta di ologramma, il che potrebbe costituire una risposta al problema della gravità quantistica.
L’Universo in laboratorio
L’idea di Schleier-Smith si basa su tutto questo. La sua intenzione, ha spiegato nell’intervista, è quella di “simulare il bordo bidimensionale attorno a un Universo”, il che, secondo il principio olografico, sarebbe sufficiente per contenere tutta l’informazione necessaria a descrivere l’Universo all’interno del bordo (ci si riferisce a questo concetto parlando di dualità olografica: lo spazio-tempo a quattro dimensioni è equivalente al suo bordo di dimensioni inferiori). Come realizzare tutto ciò? “Lavoriamo con atomi ultrafreddi – spiega la scienziata – Abbiamo isolato alcuni atomi in una camera a vuoto e li abbiamo portati, usando dei laser, a una temperatura di pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto. In questo otteniamo il setup di partenza, cioè un modello ‘controllabile’ di un sistema quantistico”. Se il setup di partenza vi sembra complicato, aspettate di leggere cosa succede dopo: “Una volta che abbiamo ‘preparato’ gli atomi – continua la fisica – e li abbiamo lasciati interagire ed intrecciarsi [ossia evolvere in uno stato di entanglement, quello in cui le particelle sono intrinsecamente connesse tra loro, ndr], scattiamo loro una ‘foto’. Esaminando le correlazioni tra diverse coppie di atomi e misurando quali sono quelle più intrecciate, otteniamo una specie di grafico ad albero, che è stato dimostrato essere una rappresentazione dello spazio-tempo. Per la precisione, uno spaziotempo a curvatura negativa, lo stesso spazio-tempo coinvolto nella teoria della dualità olografica. Devo dire che non somiglia molto a come si comporta la gravità nel nostro Universo, ma è affascinante: a mio avviso è un primo passo importante per comprendere cosa si dovrebbe provare a misurare per osservare gli effetti quantistici della gravità”. Anche se il principio olografico non dovesse mai essere confermato o verificato, insomma, lo sforzo dell’équipe di Schleier-Smith non sarebbe inutile: “I nostri esperimenti – conclude l’esperta – rappresentano comunque un’area di ricerca molto fruttuosa. Potrebbero insegnarci concetti fondamentali sullo spazio-tempo e sul comportamento della gravità, e potrebbero aiutarci a comprendere meglio la meccanica quantistica e i sistemi entangled”.