venerdì, Marzo 14, 2025

Il Cacciatore dopo 45 anni rimane un capolavoro straziante

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Il Cacciatore di Michael Cimino torna in sala, il 22-23-24 gennaio, distribuito dalla Lucky Red, con una versione in 4K per commemorare il 45° anniversario di un film che si è guadagnato una posizione di assoluto prestigio nella storia del cinema, non solamente quello dedicato al Vietnam. Parlarne, significa affrontare una pellicola non ha perso nulla della sua potenza, della sua capacità di far inorridire, di commuovere, di spezzare l’anima. Ad oggi è indubbiamente il film testamento di quella generazione che fu stritolata dal Vietnam, di un’innocenza perduta per sempre anche per chi riuscì a tornare a casa vivo.

Il film che fu l’ultimo acuto della New Hollywood

Ci sono film che sanno farsi carico di un’epoca, di una generazione, assieme di un momento anche specifico della settima arte ed il Cacciatore è uno di questi, insindacabilmente. I 45 anni del capolavoro con cui Michael Cimino è passato alla storia, tornano in sala in una versione restaurata in 4k, per dare al pubblico la possibilità di godere appieno del film simbolo dell’apice della New Hollywood. La fortuna de Il Cacciatore, infatti, fu anche quella di essere arrivato a conclusione di un momento storico tanto iconico quanto turbolento. Quella tragica storia di amicizia e dannazione fu il testamento non solo di quella generazione di registi, ma anche dell’America che si era dimenata tra spinte rinnovatrici e conflittualità, tra l’inferno nel Sud Est asiatico e la sconfitta della Generazione del ’68. Cinque Premi Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e un Christopher Walken che ancora oggi toglie il fiato per intensità, visceralità, per la capacità di essere portatore di un dolore tanto specifico storicamente, quanto universale umanamente.

Nessuno poteva immaginare che di lì a qualche anno Michael Cimino con il tonfo doloroso de I Cancelli del Cielo e Steven Spielberg con Lo Squalo, avrebbero siglato la fine del regno incontrastato che, oltre che dello stesso Cimino, comprendeva assi del calibro di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Walter Hill, Arthur Penn, Sam Peckinpah e tanti altri. Assieme avevano reso l’autorialità più rivoluzionaria il vero cuore della produzione cinematografica di quegli anni. Il botteghino di lì a poco avrebbe preteso di tornare ad essere giudice, ma prima, prima avremmo conosciuto Mike, Nick, Steven, Stosh, Peter, John e la bella Linda, li avremmo visti salutare le illusioni della giovinezza, cambiare a causa di quella guerra, che avrebbe distrutto le vite di tutti. Il Cacciatore di fatto, a 45 anni di distanza, è un caso a parte perché narrazione in grado di essere sia film generazionale che film politico, sia film reducistico che analisi della colossale bugia che era stata la Guerra del Vietnam.

Il giorno di Natale del 1998 usciva in sala il film di Terrence Malick, ancora oggi ineguagliato per la capacità di essere un’analisi filosofica di incredibile potenza.

Il Cacciatore vive di contrasti che si sviluppano anche cromaticamente, mentre lasciamo quella città di minatori tranquilla e noiosa, per seguire Mike, Nick e Steven dentro quell’inferno da cui torneranno completamente spezzati. Cimino anche per formazione personale (pittorica e architettonica prima ancora che cinematografica), sceglie di avere la natura come protagonista aggiunto, come specchio dello stato emotivo che i protagonisti vivono e attraversano. Qualcosa che sarà possibile solo grazie al meraviglioso lavoro sulla fotografia di Vilmos Zsigmond, forse l’elemento che collega maggiormente Il Cacciatore a quella cinematografia europea e asiatica a cui anche gli altri della New Hollywood facevano riferimento. Cimino la riprende, ma in modo più originale, più indipendente; forse anche per questo il film ha avuto la potenza e la capacità di distinguersi che subito gli fu riconosciuta, a dispetto di una Produzione che cercò ogni volta di mettergli i bastoni tra le ruote. Era un emergente, nessuno si fidava di lui, il film parve troppo tragico ai produttori, troppo lungo e malinconico, ma invece aveva ragione Cimino.

Il Cacciatore contiene in sé la stessa capacità di essere racconto di una comunità non tanto geografica quanto umana, così come quel Un Mercoledì da Leoni di John Milus che “casualmente” uscì quasi contemporaneamente. Quell’avventura tra i surfisti della California fu di fatto l’altro, vero, grande film generazionale sui giovani americani inghiottiti dal Vietnam e dalle illusioni sparite come neve al sole. Ma Il Cacciatore è anche un film perfetto per descriverci la terribile bugia dietro l’America che coltiva ancora il mito della Frontiera, della conquista quando invece ha creato un’apocalisse di sangue pensando di lottare per la libertà contro il comunismo. La bugia si articola seguendo il Mike di un Robert De Niro maestoso, con quell’unico colpo in canna che gli fa pensare di offrire una chance al cervo, simbolo di vita. Il cervo è inseguito da quel ragazzo figlio di un paese che gli fa pensare di essere un grande eroe, mentre si inerpica su quelle montagne, parte di una città di emigrati di cui Cimino ci dipinge un quadro dettagliato e toccante.

Dentro la mente dei reduci dell’America in pezzi

Christopher Walken e Robert De Niro sono i due assi portanti di un film che Cimino rende una metamorfosi di colori di fronte ai nostri occhi, in cui essi sono esaltati così come le tenebre che li accompagnano. La roulette russa, diventato momento mitico del cinema, è la grande metafora non solo della casualità della guerra, della sua crudeltà imprevedibile, ma anche di come un’intera generazione sia stata messa in trappola, un paese si sia suicidato lasciando pezzi di sé dentro quelle risaie e paludi. Mike che gioca con la morte da prigioniero, che salva Nick e Steven, che è un motore inarrestabile almeno finché non torna a casa, vede che il mondo che conosceva è scomparso, che nessuno lo può capire. La Linda di una dolente Meryl Streep è sempre lì ad aspettarlo, simbolo di una purezza agognata, di una salvezza che invece Nick, distrutto mentalmente da quella roulette russa, rifiuta senza esitazione.

Saigon è l’inferno dell’America, è il suo senso di colpa e quello di Nick, che è ancora dentro quella gabbia di bambù da cui non è mai uscito veramente. Mentre sputa in faccia ad Mike (scena improvvisata che mandò su tutte le furie De Niro) sputa in faccia all’America che gli ha mentito, alla bugia che lo ha ucciso molto prima di quel colpo di revolver alla tempia. Teatralità e verità, la morte come linea che collega il cervo a Nick, Mike che stropiccia i tovaglioli nel finale, mentre tristamente tutti cantano “God Bless America”. Fuori la natura infuria con vento e grigiore, celebra la morte non solo di Nick ma di un’idea, di un sogno, quello della Generazione che voleva cambiare il mondo ma il mondo ha cambiato loro. Erano partiti pensando di imitare i padri, tornati come eroi nella terra dei pub, della caccia, delle canzoni cantate a squarciagola. Invece hanno avuto arti mozzati, volti scomparsi, la vita che non riparte più perché quella degli altri è già altrove, oltre quella montagna dove Mike non spara più, perché uccidere ormai gli è impossibile.

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