Questo articolo è stato pubblicato da questo sito
IN CONCORSO
MEGALOPOLIS, di Francis Ford Coppola
L’attesissimo Megalopolis, presentato in concorso al Festival di Cannes, non è un film inutile. Anzi, per molti versi è in perfetta linea con la carriera bigger than life del suo regista, Francis Ford Coppola. E’ proprio nel tentativo, non riuscito, di afferrare tanti temi cruciali dell’esistenza, dal Tempo alla Seduzione, dall’Amore all’Avidità, dal Potere alla Politica, dal senso della Democrazia ai Rapporti famigliari, di afferrare quello che rimane nella vita di uno dei più grandi cineasti degli ultimi sessant’anni, l’aspetto più interessante, affascinante, intrigante di questo film futuristico che però guarda alla vita e al passato, più che al futuro. Ma che inciampa continuamente e non tanto perché tutto il tono è volutamente sopra le righe, caricaturale, a partire da alcuni personaggi, dai riferimenti alla Roma antica, ma perché mancano i tempi giusti, perché alcune parti risultano poco sopportabili per la dilatazione temporale, per l’inutilità quasi compiaciuta di alcune situazioni, perché i personaggi rimangono troppo in superficie e perché lo stesso riflettere sul valore del Tempo, sul valore e significato della Democrazia oggi avrebbe meritato meno superficialità. Coppola si è fatto inghiottire dalla voglia e dal desiderio di raccontare tutto, di afferrare la vita che sta scivolando via. In questo modo, non ha centrato quasi nulla in questo sogno lungo un giorno, o forse, una vita intera.
SEMAINE DE LA CRITIQUE
Nel presentare la sua opera d’esordio alla Semaine de la critique, Keff, regista esordiente di Taiwan, ha sottolineato diverse volte come il suo Locust sia un film su Taiwan fatto da taiwanesi. Una frase manifesto per un film che infatti non contempla mai le mezze misure. Racconta le vicende del ventenne Zhong Han che di giorno lavora in una piccolo food store ma che di notte si accompagna a pericolosi gangster che metteranno a repentaglio le sua relazione sentimentale con una ragazza e con i gestori stesso del food store. Keff realizza un film militante che dipinge la realtà taiwanese sull’orlo del collasso, non solo per le continue ingerenze cinesi sull’sola, ma anche a causa di un’economia decadente, di una politica sempre più corrotta e sempre meno attento ai bisogni dei cittadini. Simpatizza con i movimenti di protesta di Hong Kong, facendo intendere che a breve sarà proprio il turno di Taiwan nel perdere la propria libertà ed autonomia. Nessun mezzo tono, nessuna sfumatura, tanta retorica, luoghi comuni nella descrizione dei personaggi e dei luoghi che li circondano. Anche la faida tra le contrapposte bande di gangster rimane solo confusa e piena di zone d’ombra. Un’opera prima ingenua che beneficia unicamente di una bella colonna sonora e di alcune ambientazioni di buon impatto visivo.
CANNES PREMIERE
Rithy Pahn prosegue la dolorosa indagine nel passato tormentato del suo paese, la Cambogia, con un capitolo di grande interesse, Rendez vous avec Pol Pot, di grande interesse perché unisce documentario e fiction in una vicenda del 1978 che porta all’attenzione l’inchiesta di tre reporter francesi (uno dei quali ha studiato a Parigi proprio con Pol Pot) nel tentativo di capire quanto sta accadendo veramente in quel paese, cosa significa la rivoluzione khmer, cosa si cela dietro al mistero di Brother N.1. Rithy Panh, allontanandosi anche da quel leggero manicheismo e dal semplicismo di alcune sue opere che si limitavano a condannare la strage dei khmer rossi e il loro regine, con questa sua ultima opera, proprio nell’incontro ravvicinato con il leader carismatico, tenta di andare alle radici della violenza, della follia, della dittatura, articolata e spiegata proprio da Pol Pot. Altrettanto incisivo il ritratto femminile della reporter giornalista interpretata da Irene Jacob, la più ribelle dei tre, che con le sue domande scomode spesso mette in difficoltà la vulgata del regime e chi la racconta