martedì, Luglio 2, 2024

Forrest Gump dopo trent'anni continua ad insegnarci tantissimo sulla vita

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Forrest Gump quel giorno di giugno del 1994 ci insegnò una cosa importantissima: la vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita. 30 anni dopo, gli insegnamenti e il messaggio di fondo di questo incredibile cocktail di commedia, dramma, fantasy ucronico rimangono tanto sfumati, quanto allo stesso tempo potentissimi. Ma soprattutto, il film di Robert Zemeckis rimane uno dei più amati di tutti i tempi, un vero e proprio patrimonio comune, un’opera capace di definire un decennio e assieme di rivendicare un posto nella pop culture più universale che vi sia. Il tutto al servizio di un Tom Hanks diventato leggenda.

La nascita di un mito cinematografico

Forrest Gump nacque sull’onda del successo generato dal romanzo originale di Winston Groom, uscito nel 1986. Tuttavia, il suo iter produttivo fu complicato dalla necessità di condensare il corposo testo originale in una sceneggiatura realistica per una produzione cinematografica, così come dal fatto che la Warner, dopo il successo di Rain Man con Dustin Hoffman, avesse deciso improvvisamente di non volere produrre un altro film incentrato su un portatore di Sindrome del savant. La Columbia Pictures accettò di prendere la produzione solo dopo che Eric Roth presentò una sceneggiatura che fu giudicata positivamente, ma che si allontanò moltissimo dallo stile cinico e assieme avventuroso del libro di Groom, diventando invece più un melodramma con innesti comici e modificando profondamente la natura del protagonista. Eppure, a conti fatti, fu la scelta probabilmente migliore per ottenere il magnifico film che oggi tutti amiamo e che permise a Tom Hanks, anche grazie a Philadelfia, di diventare il volto simbolo del cinema americano che oggi tutti conosciamo. La cosa più assurda? Zemeckis e i produttori avevano pensato inizialmente a John Travolta, che però glissò in favore di Pulp Fiction di Quentin Tarantino.

Gli altri nomi papabili erano quelli di Bill Murray, Chevy Chase, John Goodman, Sean Penn e Matthew Broderick, ma Tom Hanks si dimostrò fin dall’inizio innamorato del ruolo e in grado di dare a Zemeckis esattamente il tipo di personaggio che Forrest Gump voleva avere: non un “idiota sapiente” e basta, ma un’anima candida, ingenua, ma non per questo indifesa di fronte al mondo. Il paradosso è che Forrest Gump invece è un film sostanzialmente ostile verso concetto di American Dream, l’individualismo e poi il culto del successo. Forse è stato il film più contrario a tutto quel percorso degli anni ’80, che bene o male era connesso al reaganismo. Forrest Gump è stato un miracolo cinematografico perché, leggero come una piuma, ha saputo porsi a metà strada tra fiaba e realismo, ha saputo essere epico ma senza essere retorico, leggero senza essere superficiale, ma soprattutto commovente senza essere patetico. Allo stesso tempo, è anche un viaggio dentro la storia americana, il mutamento della sua struttura dei suoi valori, della società, di cui Forrest Gump è testimone, ma allo stesso tempo anche protagonista, all’interno di un iter straordinario per ironia, autoironia e anche capacità di dissacrare alcuni dei miti più iconici, connettendo tali operazioni all’omaggio.

Il 21 maggio 1994 veniva presentato al Festival di Cannes un film capace di cambiare tutto e segnare un momento iconico nell’immaginario collettivo

Bisogna partire da un presupposto: Forrest Gump ha come protagonista un ragazzo che per tutta la vita sa di essere diverso dagli altri, lo è anche fisicamente oltre che mentalmente, almeno all’inizio, ma non per questo smette di essere dotato di una capacità unica non tanto di trovare il buono negli altri, ma in se stesso. In un eterno movimento in avanti rappresentato da quella corsa, che altro non è che il fluire della vita in senso universale, Forrest diventa asso del football giovanile, eroe di guerra in Vietnam, pacifista, campione di ping pong, imprenditore, marinaio…eppure, fateci caso, ognuno di questi elementi nella sua vita è transitorio, nulla è certo o definito, ma soprattutto nulla è voluto da Forrest in persona. Semplicemente, come una scatola di cioccolatini, gli è capitato addosso e lui ha dovuto decidere cosa farne. Lui, che non capisce chi sia il “Charlie” che cercano in Vietnam fucile in mano, che scatena con una telefonata innocente il Watergate, che diventa suo malgrado un guru new age negli anni ‘80 correndo ovunque, è la negazione stessa dell’eccezionalismo americano. Nel film il culto della personalità, che ancora oggi l’America ama con Elon Musk, Bill Gates o Andrew Tate, affonda in un mare di ridicolo e di satira, tra le migliori di quell’epoca cinematografica.

Forrest Gump fin dall’inizio ci prende per mano e ci fa vedere il mondo attraverso il suo punto di vista e basta. L’enorme semplificazione di sguardo che egli rappresenta, non ne sminuisce capacità o intelligenza, ma al contrario ci porta passo dopo passo verso una riappropriazione di una lettura della realtà scevra di inutili complicazioni e sovrastrutture. Non è un caso infatti che non ci sia una visione manichea della vita, della società o degli altri in Forrest, egli non esprime in realtà nessuna opinione su nessuno, se non verso quella Jenny (Robin Wright) che più che amare quasi idealizza a livelli da certi punti di vista quasi patologici, che Zemeckis non ha nessun problema ad illuminare spesso di un luce a metà tra il doloroso ed il sinistro. Tramite lei poi, abbiamo una condanna verso la società maschilista e patriarcale americana, conservatasi nel corso degli anni, mentre tutto apparentemente cambia. Il che poi naturalmente non ha evitato che proprio Jenny diventasse anche uno dei personaggi femminili più odiati da una certa parte del pubblico, in virtù di un certo opportunismo, sul quale effettivamente non è poi così sbagliato concentrarsi.

Un personaggio negazione dell’american dream e del culto del successo

Forrest Gump da una certa parte della critica fu alquanto detestato, perché pur omaggiando il James Stewart di La Vita è Meravigliosa, a Mr. Smith va a Washington, all’omaggiare con la sua continua ucronia una lettura dissacrante del mito americano, vi scorsero un grande conservatorismo. L’ingenuità e in alcuni casi l’ignoranza di Forrest sono quindi virtù e qualità? Davvero l’assenza di una visione critica, il dipingere come ipocriti e debosciati gli hippies e i figli dei fiori, la Contestazione del ‘68 è l’intento sotterraneo di Zemeckis? Una lettura alquanto limitativa, perché la realtà è che Forrest Gump è ferocissimo non con il suo personaggio o gli altri a lui vicini, che subiscono tragedie e dolori, ma con la società americana, con il Sogno Americano, che è dipinto come bugia e come orribile menzogna, promessa vuota e priva di alcuna realtà. Gump non è un uomo di successo, è un uomo che affronta la vita, cosciente di non poterla controllare, ma di poter reagire ai suoi colpi, si sente parte di una collettività anche se non la capisce e per lui resta un mistero. Armato di una colonna sonora meravigliosa di Alan Silvestri, Forrest Gump è un film delicato, intelligente, ma molto meno ingenuo o consolatorio di quanto sembri.

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