sabato, Febbraio 22, 2025

Venezia 81: giorno 10. Cronache di cinema e molto altro

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Oggi è stato il penultimo giorno della Mostra del Cinema 2024. È stato l’ultimo in realtà, perché domani non è un giorno di proiezioni, ma di grande attesa, di molti saluti e di improvvisi ritorni e mi riferiscono ad attori, registi, produttori, sceneggiatori che potrebbero tornano al Lido per ricevere un Leone qualsiasi. Quindi oggi è stato l’ultimo giorno della Mostra del Cinema 2024 e con esso se n’è andato il Concorso. Dal punto di vista delle presenze, c’è stata ancora parecchia gente al Lido, non solo pubblico ma anche accreditati e questo non può che far bene all’immagine della Mostra. Ciò che può far male invece, è l’avere relegato come spesso ho visto fare negli ultimi anni, le proiezioni ufficiali, con red carpet annessi, dei film o di registi dell’Oriente a orari o troppo tardi alla sera o troppo presto al pomeriggio. Ieri la presentazione ufficiale del film Stranger Eyes di Siew Hua Yeo è passata inosservata perché è avvenuta molto tardi, senza alcuna diretta; quella di Youth (Homecoming), invece, il documentario di Wang Bing è avvenuta oggi alle 14 con un manipolo di fotografi sul tappeto rosso e l’assenza di Alberto Berbera (che tra l’altro ha più volte definito il regista “il più grande documentarista cinese”, salvo poi mancare al momento di presentarlo). Considerate che entrambi i film sono nel Concorso. Per fortuna la presentazione del film di Takeshi Kitano, Broken Rage (Fuori Concorso) ha avuto una copertura mediatica abbastanza dignitosa. Assisto ormai, e la redazione di LinkinMovies.it è d’accordo, all’utilizzo del metro di “due pesi e due misure” nella rilevanza mediatica da dare ai film del Concorso: è un dato di fatto ormai. Ma come sempre accade, la stampa nostrana non si occupa di questi aspetti, lasciando che tutto cada nel vuoto. Per fortuna la prima del documentario di Bing è andata molto bene e il caloroso applauso tributatogli al termine della proiezione in Sala Grande, ha reso particolarmente contento il regista cinese. Io, invece, oggi ho fatto davvero il pieno i film, come già anticipato ieri nelle Cronache dal Lido giorno 9, e tutti meritevoli di una riflessione da condividere con voi. Quindi, è meglio che inizi.

E il cinema? Eccolo! Il primo film di cui voglio parlarvi è Kjaerlighet (Love) del regista norvegese Dag Johan Haugerud, presente nel Concorso- Venezia81. È il secondo capitolo di una trilogia sulla sessualità, sul desiderio e sulla trasgressione della società nordica. Il primo capitolo, Sex, è stato presentato nella sezione Forum del 74° Festival di Berlino e narra della storia di due uomini eterosessuali sposati, di mestiere spazzacamini, intenti a sfidare la nozione consolidata di mascolinità e le norme sociali in merito alla sessualità e alla indennità di genere. Love, invece, ha un punto di vista femminile. La protagonista è un’urologa, interpretata dalla famosa attrice norvegese Andrea Braein Hoving, Marianne, donna single che si interroga su come manifestare la propria sessualità. A interloquire con lei ci sono Tor, infermiere omosessuale che si avvicina a un paziente a seguito di un suo intervento chirurgico; un uomo che la donna ha conosciuto sul traghetto che la porta a casa con cui ha un rapporto sessuale occasionale; un amico, separato, la cui ex moglie vive in una casa a pochi metri dalla sua. I tre rappresentano tre aspetti diversi di mascolinità: quella più sensibile di Tor; quella più mascolina e menefreghista dell’uomo conosciuto sul battello; quella più disincantata e libera dell’amico separata. Tutte queste sfumature apportano nella donna una nuova consapevolezza su come vorrebbe che fosse la sua sessualità. Il film, quindi, si presenta come un percorso di acquisizione, non proprio un viaggio di crescita perché Marianne alla fine non è una nuova lei; un percorso anche di consapevolezza nuovi caratteri del proprio essere anche in relazione alla società e ai suoi vincoli.

Ad esempio, l’uomo che la protagonista incontra sul battello è sposato e lui stesso le dice che vuole comunque bene alla moglie, per quanto lui abbia dei bisogni biologici da soddisfare, ma Marianne non la prende bene. Parallela alla storia della donna, c’è quella di Tor, l’infermiere che conosce molto bene la psiche e gli impulsi dell’uomo, a tal punto che offre la sua disponibilità a dialogare e confrontarsi a un uomo in difficoltà post operatoria. Il cardine narrativo, infatti, di Love è il dialogo. All’inizio i confronti tra i protagonisti possono sembrare infiniti scambi di battute tra due personaggi, ma in realtà in quel mare di parole si scoprono i pensieri e le motivazioni dei vari personaggi, un po’ come visto anche in Trois Amies di Mouret. Haugerud, dal canto suo, non si accosta alle vite dei suoi personaggi, ma ci si insinua dentro con la macchina da presa che inquadra in primo piano i volti e nei campi/controcampi realizza quello scambio di vedute, utile alla crescita del film, sottolineato da una musica avvolgente e vibrante. Non qualcosa di eccezionale, insomma, questo Love, ma di onesto, intimo, semplice e non pretenzioso; un affresco nelle vite di semplici individui normali. 

Al termine di Love, sono corso al Cinema Astra per vedere quel gran bel classico del cinema di cui vi ho parlato ieri, Manji (All Mixed Up) di Yasuzō Masumura. Per avere sessant’anni questo film se li porta benissimo. Girato mostrando e nascondendo, in modo da stimolare il gusto voyeuristico insito nello spettatore, racconta una storia che ancor’ oggi nella nostra modernità sempre più illecita, può risultare scandalosa. Il 28° film di Masumura, che si è formato al Centro Sperimentale di Roma negli anni Cinquanta, parla di infatuazioni, lesbismo, adulterio, duplicità, complicità, finte gravidanze, ricatti, droghe che sono più medicinali, giuramenti con il sangue, finti suicidi e morti vere e un ménage à trois scandaloso e peccaminoso. Il restauro compiuto da Kodokawa Corporation ha restituito il corposo e lucente colore di questa pellicola che pone al centro della storia Sonoko, interpretata da Kyoko Kishida, mentre racconta a uno scrittore senza nome del suo passato da casalinga annoiata che si iscrive a una scuola d’arte. Qui inconsciamente, al posto di ritrarre le modelle, la sua mano disegna il volto dell’attrice Mitsuko (Eiji Funakoshi) di cui ne è affascinata. Il destino vuole che si incontrino e diventino amiche in un rapporto un po’ sbilanciato in cui Sonoko rimane costantemente stregata dal corpo e della sagacia dell’altra donna la quale si rivela una dea sfuggente e rovinosa anche nei confronti del suo fidanzato come del marito di Sonoko. Come detto prima, le inquadrature sono perfette e ogni movimento delle attrici nei loro giochi sensuali e di potere è coordinato al millimetro non tanto per non mostrare, quanto per stimolare la psiche dello spettatore. Poi ci sono gli sguardi ammaliatori, le azioni e una serie di colpi di scena, che spingono il film nel mistero e nell’attesa di capire come potrà finire. Manji è anche un film sulla finzione e sul rapporto tra il tradizionalismo giapponese nel confronto con i valori moderni stranieri, evidenziato nella contrapposizione di costumi tra donne e uomini. Quanta modernità in un film che ha sessant’anni.

Torno al Concorso con Youth (Homecoming) della nostra 34a Luce del Cinema Wang Bing. Dopo aver presentato Youth (Spring) nel concorso del Festival di Cannes 2023 e Youth (Hard Times) al 77° Festival di Locarno, il documentarista cinese approda a Venezia 81 con il terzo capitolo di questa trilogia. Cosa mostrano i primi due documentari? Il primo è ambientato a Zhili, a 150 km da Shanghai. In questa città industrialmente dedita alla produzione tessile, i giovani lavoratori provengono da tutte le regioni rurali vicine. Sono poco più che ventenni, condividono dormitori e fanno merenda nei corridoi. Lavorano instancabilmente per poter un giorno crescere un figlio, comprare una casa o aprire un proprio laboratorio. Tra loro ci sono amicizie e storie d’amore che si fanno e disfano seguendo le stagioni, i fallimenti e le pressioni familiari. Youth (Hard Times), invece, racconta di alcune storie che si snodano sempre nei laboratori tessili di Zhili, divenendo più drammatiche con il passare delle stagioni. Dall’alto di un corridoio, un gruppo di operai osserva il proprio capo indebitato picchiare un fornitore. In un’altra officina, il capo si è dileguato con tutti i soldi. Gli operai si ritrovano, così, soli, derubati dei frutti del loro lavoro e quindi scattano le rivolte, quelle del 2011, che la polizia reprime. Dopo aspre trattative, gli operai tornano a casa per festeggiare il nuovo anno. Youth (Homecoming), terzo atto, parla appunto del ritorno a casa. L’azione si svolge in un periodo di cinque anni, dal 2014 al 2019, e parte dai già visti laboratori sartoriali in cui si confezionano migliaia di vestiti (come dice la didascalia finale), per poi spostarsi nella campagna e infine tornare in città sempre in quei laboratori. Il filo è tenuto dalle vite di questi ragazzi che il regista identifica con nome, età e provincia di provenienza, inquadrati nella loro vita di tutti i giorni. Alcuni si confidano anche con la macchina da presa restituendo i propri sogni. Più che speranze, però, sono timori, come una ragazza che afferma di non avere grande fiducia nel futuro e di non sapere se è davvero sicura di voler mettere al mondo dei figli, perché il loro destino quale sarebbe? E tutt’attorno alla ragazza c’è la risposta ossia una casa che ha solo le pareti, quasi senza pavimento, con una flebile luce dove quel poco che c’è, è gettato a caso. Si mangia per terra e si dorme in letti che fungono anche da armadi perché nascondono sotto il piumone montagne di vestiti.

Non se la passa bene questa gioventù cinese che lo spettatore capisce essere il vero motore della sfavillante economia cinese. Questi ragazzi lavorano tanto, veloce e con grande precisione alla macchina da cucire. L’unico periodo di stacco è il capodanno in cui, appunto, tornano ai loro villaggi a confrontarsi con un’umanità in caduta libera. Wang Bing filma con la solita capacità di stare dentro i suoi personaggi, pur lasciando loro quella distanza che gli permette di esprimersi liberamente. I giovani che inquadra non manifestano le loro emozioni (delusione per il mancato lavoro; gioia per il matrimonio o per il ricongiungimento famigliare; serenità per una chiacchiera tra amici), eppure queste sono comprensibili a chi guarda perché lo stile di regia di Bing lo porta dentro quell’universo, a contatto con quei giovani. Anche quando si vede semplicemente un uomo camminare in un prato, lo spettatore può osservare la desolazione dei territori, la fatica dell’uomo di camminare su una strada non asfaltata, la difficoltà nell’incedere di quell’uomo. In Youth (Homecoming) tutto è osservazione, e tutto è da osservare e da vivere. Il documentarista cinese con questa trilogia compie un ritratto di una generazione che si è arresa, perché schiacciata dal potere dello Stato. Deve lavorare e infatti il terzo documentario mostra come questa necessità riguardi i trentenni come gli adolescenti. La narrazione inizia dai più grandi per scendere con il prosieguo dell’opera, con l’età fino ad arrivare ai sedicenni, i giovanissimi anche loro costretti a lavorare in stanze senza finestre, illuminate da una luce bassissima, in mezzo a polvere e sporcizia. E lì, seduti a terra, confezionando i pacchi, si consuma la loro esistenza. Documentario da applausi per Wang Bing che meriterebbe il Leone d’oro di Venezia 81 per come riesce solo con una macchina da presa a raccontare un universo esistenziale. Il suo occhio è un gran dono per il cinema. 

Ultima freccia nella mai faretra di cinema quotidiana è April di Dea Kulumbegashvili, Concorso-Venezia 81. La storia riguarda una ginecologa accusata di negligenza a seguito della morte di un bambino nato prematuro da lei fatto nascere. La donna, inoltre, compie degli aborti illegali nelle campagne attorno alla città e, in più, deve fare i conti con i suoi bisogni di donna sola. April affronta diversi temi che la regista tiene insieme in Nina, appunto la protagonista. C’è la dimensione personale della donna che cerca un cambiamento, ma si deve arrendere non tanto ai poteri forti, quanto alla vita, al destino. C’è la dimensione politica che racconta come vivere in città o in campagna nella Georgia di oggi sia profondamente diverso. Nella prima esistono le ingiustizie, nella seconda esiste una mentalità arretrata, contadina, di sfruttamento e prevaricazione. Qui arriva anche Nina perché appunto aiuta le donne, poste all’ultimo gradino della piramide sociale, ad abortire, da intendersi come un atto di liberazione. Sempre in campagna la protagonista, però, cerca una sessualità brutale che in una scena la regista metaforizza in un commercio illegale di bovini, a simboleggiare, appunto, il desiderio primordiale della donna. In April, poi, c’è la dimensione più filosofica che investe i concetti di vita e morte, uniti tra loro e coincidenti nel lavoro di Nina in ospedale, come anche nelle campagne e nei confronti appunto dell’umanità che incontra. La donna nel ritratto che ne conferisce Kulumbegashvili è una donna, quindi, che fornisce delle soluzioni, ma che cerca qualcosa: è un corpo che cerca la sua espressione; è un mostro nella visione altrui che cerca un sostegno e un appoggio nei momenti di fragilità; è un essere umano fragile che può sbagliare.

Il film, così, si presenta come un viaggio problematico che sembra non esaurirsi mai perché si alimenta delle sue contraddizioni. La regista è molto brava nel ritrarre tutto questo in lunghe scene silenziose, non risparmiandosi nell’inquadrare dall’alto, da di lato, dal basso, il sangue che, per un motivo o per l’altro, scorre dai corpo delle donne, e nella camera fissa che dà dei segnali da interpretare allo spettatore. Di fronte alla macchina da presa che si muove solo e a volte verso destra o sinistra, non c’è la scena, ma dei segni, dei simboli, delle metafore che lo spettatore deve tenere insieme. Kulumbegashvili sa, infatti, sempre cosa mostrare e come farlo, filmando scene che si incastrano tra loro, anche se in apparenza non può sembrare. April, è pertanto, un film che merita una profonda riflessione; è doloroso, come anche crudo, perché non si nasconde, ma mostra e propone con un piglio autoriale che è difficile da trovare in una regista alla sua opera seconda.

Altro ancora (più brevemente)

  • Purtroppo queste Cronache dal Lido terminano oggi. Domani dopo la premiazione di Venezia 81, pubblicheremo un articolo che raccoglie il palmares e con calma lungo la settimana prossima scriverò le mie considerazioni su ciò che è stato. Restano fuori da questo contenuto editoriale Cloud di Kiyoshi Kurosawa e Broken Rage di Kitano, ma non è detto che non ci sia modo di parlarne più avanti. 
  • Vi ringrazio ancora delle vostre letture che sono state, come ogni anno, al di sopra delle nostre aspettative di redazione. Venezia 82 inizia domenica 8 settembre 2024 e la redazione di LinkInMovies.it è già pronta a raccontarvela.  

Da Venezia 81 è davvero tutto.  

Crediti fotografici

Foto 1 PHOTOCALL – BROKEN RAGE – N. Omori, T. Kitano e T. Asano – Credits G. Zucchiatti La Biennale di Venezia-Foto ASAC – 3

Foto 2 KJAERLIGHET LOVE – Andrea Braein Hovig e Tayo Cittadella Jacobsen – Credits motlys – 1

Foto 3 KJAERLIGHET LOVE – Andrea Braein Hovig, Tayo Cittadella Jacobsen e Marte Engebrigtsen – Credits motlys – K1

Foto 5 QING CHUN GUI – YOUTH (HOMECOMING)- Official still – 3

Foto 6 QING CHUN GUI – YOUTh (HOMECOMING) – Official still – 2

Foto 7 APRIL – Official still – Credits Arseni Khachaturan

Foto 8 APRIL – Actress Ia Sukhitashvili

Foto 9 RED CARPET – YOUTH (HOMECOMING) – Director Bing Wang – Credits G. Zucchiatti La Biennale di Venezia – Foto ASAC – 2

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