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Il Trump bis visto da Cina e Asia

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Taipei – 2 dicembre 2016. Donald Trump alza la cornetta del telefono. Dall’altra parte c’è Tsai Ing-wen. Uno è da qualche settimana il presidente eletto degli Stati Uniti, in attesa di entrare in carica nel gennaio 2017. L’altra è già da oltre sei mesi la presidente della Repubblica di Cina, Taiwan. È la prima e unica volta che avviene una conversazione del genere da quando i rapporti bilaterali tra Washington e Taipei sono stati recisi, vale a dire nel 1979. Quell’episodio sconvolge la Cina, quella guidata dal Partito comunista, e segna in parte l’inizio di un processo i cui effetti continuano a vedersi ancora oggi.

Anche se, negli anni seguenti a quella telefonata, Xi Jinping riuscirà a esercitare una certa influenza e fascinazione su Trump, che ne loda a più riprese il metodo di governo autoritario e ne soffre la maggiore esperienza diplomatica nei due incontri di Stato ufficiali. Tra l’inusuale accoglienza all’interno della Città Proibita in cui Xi fa sentire tutto il peso della civiltà millenaria cinese, ai poemi in mandarino recitati dalla nipote di Donald, Arabella, nel resort di Mar-a-Lago, la sensazione è quella di rapporti di forza decisamente a favore del presidente cinese. Tutto questo, però, prima che Trump scatenasse una durissima guerra commerciale e tecnologica contro Pechino. Mettendo nel mirino Huawei, fiore all’occhiello dell’innovazione cinese, cooptando i produttori asiatici di microchip (a partire dalla taiwanese TSMC), chiamando la pandemia di Covid-19 “China virus”. E lasciando in eredità un’ostilità bipartisan nei confronti di Pechino.

Otto anni dopo, si torna al punto di partenza. Ma, nel frattempo, il mondo è cambiato. Joe Biden ha cambiato i modi, ma non le finalità dell’approccio di Trump nei confronti della Cina. Le sanzioni e le restrizioni sulle catene di approvvigionamento sono rimaste e si sono anzi intensificate, le frizioni strategiche sono persino peggiorate, soprattutto dopo la guerra in Ucraina e la visita a Taiwan dell’ex presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.

I pericoli della transizione e lo scontro commerciale

Ora la Cina prova a capire che fattezze assumerà l’imminente Trump bis dopo l’esito delle elezioni Usa 2024. A partire dalla fase di transizione, dove si teme qualche nuovo brutto scherzo. A Taipei, la sensazione è che sia in realtà difficile una ripetizione del colloquio telefonico fra Trump e il leader taiwanese, che nel frattempo è diventato il più assertivo Lai Ching-te. Anzi, secondo diverse indiscrezioni il team dell’ufficio presidenziale di Taipei ha avuto serie difficoltà a mettersi in contatto con la squadra elettorale di Trump. Tanto che il molto chiacchierato possibile transito di Lai negli States entro fine anno pare al momento essere uscito dai radar, probabilmente sostituito da un meno sensibile viaggio dell’ex presidente Tsai. Vedremo.

Senz’altro, le scintille ci saranno sul fronte commerciale. Trump ha promesso, dalla prospettiva cinese minacciato, dazi fino al 60% su tutti i prodotti della Repubblica Popolare. Sostanzialmente una mannaia sull’interscambio commerciale, che secondo alcune proiezioni potrebbe arrivare a costare circa il 2,5% del PIL cinese nell’anno successivo all’introduzione delle tariffe aggiuntive. Non a caso, dopo la notizia della vittoria di Trump la borsa di Hong Kong (quella più integrata nel sistema finanziario globale) ha chiuso in profondo rosso, con i titoli tecnologici andati a picco nel timore di nuove sanzioni. Diversi analisti prevedono peraltro che Xi possa finalmente approvare misure di stimolo più sostanziose per l’economia, per provare ad attutire l’impatto dei potenziali dazi.

Le opportunità strategiche tra Europa e Asia

Ci sono però anche delle speranze. Durante il primo mandato di Trump, Xi ha usato la diplomazia personale per convincerlo a ritirare le restrizioni su ZTE, ed è possibile che possa provare a ripetersi, facendo leva sulla volontà del tycoon di presentarsi come un dealmaker. Inoltre, la probabilità che Trump si allontani da altri importanti Paesi produttori di chip potrebbe consentire il ritorno di flusso di semiconduttori, privando le restrizioni dell’afflato retorico-ideologico delle cosiddette “supply chain democratiche“.

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