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Una caduta rapida e ma forse già attesa. Northvolt, la startup svedese considerata la grande speranza dell’Europa per l’indipendenza nella produzione di batterie per auto elettriche, ha dichiarato bancarotta negli Stati Uniti. L’azienda, fondata nel 2016 dall’ex dirigente Tesla Peter Carlsson, aveva aperto una filiale commerciale in America nel 2022 per espandere il suo mercato oltre l’Europa. Per questo si è potuta appellare il 21 novembre 2024 al Chapter 11, la norma fallimentare americana che offre maggiori protezioni rispetto alle leggi europee, permettendo di continuare l’attività mentre si cerca un accordo con i creditori. Con debiti per 5,8 miliardi di dollari e soli 30 milioni di liquidità in cassa, sufficienti per una settimana di operatività, Northvolt necessita urgentemente di nuovi finanziamenti per 1-1,2 miliardi di dollari.
“Direi che c’è ancora luce nel tunnel“, ha dichiarato con cauto ottimismo la vice premier svedese Ebba Busch a Euractive, ma in realtà la situazione appare critica. L’azienda deve restituire 313 milioni alla Banca europea per gli investimenti e ha già visto le dimissioni del suo amministratore delegato Peter Carlsson, che ha ammesso gli errori commessi pur invitando l’Europa a non abbandonare i piani per la creazione di un campione continentale delle batterie, per non cedere altre quote di mercato alla Cina. Un appello destinato probabilmente a cadere nel vuoto, perché proprio da Pechino potrebbe arrivare il salvagente per Northvolt. Come riporta il Sole 24 Ore, l’azienda ha avviato trattative segrete già la scorsa estate con Catl. “Le discussioni preliminari tra svedesi e cinesi si sono svolte nella sede principale di Catl, a Ningde, in Cina“, rivela il quotidiano italiano.
La parabola di un gigante
Era nata per competere con i colossi asiatici delle batterie, sfruttando l’energia idroelettrica del nord della Svezia. Northvolt aveva raccolto investimenti per oltre 15 miliardi di dollari, inclusi quasi 5 miliardi in sovvenzioni e prestiti da Canada, Unione europea, Germania, Polonia e Svezia. Tra i principali azionisti figurano il gruppo Volkswagen con il 21% e Goldman Sachs con il 19% delle quote. La banca d’affari americana ha già annunciato che entro fine anno “procederà a svalutare interamente la sua esposizione a Northvolt, che ammonta a 896 milioni di dollari“, come riporta Start Magazine. Nel frattempo, Volkswagen ha comunicato che la sua partecipazione, valutata 1,4 miliardi di euro, vale oggi meno della metà.
Nel 2020 l’azienda aveva firmato contratti miliardari: 2 miliardi di euro con Bmw e 14 miliardi con Volkswagen, oltre a collaborazioni con Scania, Volvo e la compagnia energetica portoghese Galp. “Il portafoglio ordini superava i 50 miliardi di dollari“, scrive l’Economist, tanto che “nel 2023 si parlò anche di una possibile quotazione in borsa con una valutazione superiore a 20 miliardi di dollari”.
Dietro il fallimento
I problemi sono emersi già quest’estate. Bmw aveva cancellato il contratto da 2 miliardi firmato nel 2020 a causa dell’incapacità di Northvolt di fornire i volumi concordati. Il gigante svedese aveva puntato tutto sull’espansione rapida: mentre la fabbrica principale di Skelleftea, nel nord della Svezia, produceva a meno dell’1% della sua capacità generando perdite per 1,2 miliardi di dollari nel 2023, l’azienda aveva già avviato la costruzione di altre tre gigafactory in due paesi diversi. “I manager erano così desiderosi di espandersi che hanno trascurato le basi“, ha scritto l’Economist.