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Il Miglio Verde di Frank Darabont compie un quarto di secolo. Dopo tutto questo tempo, questa sublime trasposizione del romanzo di Stephen King rimane uno dei titoli più amati e ricordati dal grande pubblico, in virtù di una caratura innegabile a livello formale e di significati. Toccante, profondo, capace di essere un mix di genere di grande innovazione, Il Miglio Verde è però soprattutto uno dei più grande film carcerari di ogni tempo, un risveglio della coscienza unico nel suo genere.
Un’odissea carceraria tra uomini, topi, paura e speranza
Il Miglio Verde chi l’ha visto non ha più potuto dimenticare. Ancora oggi, a 25 anni di distanza, il film di Frank Darabont rimane una delle esperienze cinematografiche più potenti, memorabili e significative che il genere carcerario abbia offerto. Darabont era reduce dal successo ottenuto con un altro capolavoro assoluto del genere, quel Le Ali della Libertà che ad oggi è l’unico film a poter essere messo allo stesso livello di questo, non a caso entrambi nati dalla geniale mente di Stephen King. Tuttavia, il fatto che proprio il grande autore da sempre indichi in Il Miglio Verde la migliore trasposizione di una sua opera letteraria, basta e avanza per illuminare il film di Darabont di una luce unica, ancora oggi immutata per la capacità che ha avuto di rendere verosimile una narrazione inverosimile. Il risultato fu possibile proprio grazie al successo ottenuto però con Le Ali della Libertà che si era rivelato non sono un grandissimo successo di pubblico e di critica, ma aveva dimostrato alle majors, quanto fossero ritenuti importanti quei film capaci di affrontare tematiche difficili e attualissime in quel finire di anni ’90.
Era un decennio in cui il cinema metteva in discussione molti punti cardine della società americana, quelli che per tanto tempo nessuno aveva pensato si potessero scalfire. E in quegli anni 90, che Rob Lowe ancora oggi definisce l’ultima grande decade, in quell’America dove si abbattevano barriere e si parlava di cambiamento, la pena di morte era uno degli argomenti più discussi e su cui l’opinione pubblica e la politica si erano maggiormente divise. Ci si chiedeva da parte di molti quanto fosse giusta, quanto funzionasse, ma soprattutto erano emersi una marea di casi in cui in passato erano stati condannati uomini ingiustamente, od erano stati commessi errori imperdonabili, dettati da razzismo o classismo. Il carcere dominava quindi il grande schermo in quegli anni. C’erano stati Nel Nome del Padre, Schegge di Paura, un altro capolavoro come Dead Man Walking, Il momento di uccidere e L’isola dell’ingiustizia. Davvero era giusto togliere la vita di un altro uomo? Anche del peggiore degli uomini? Una delle tante domande che dominano Il Miglio Verde, ambientato dentro un braccio della morte, situato nel carcere di Cold Mountain.
L’incipit de Il Miglio Verde ci fa conoscere l’anziano Paul Edgecombe (Dabbs Greer) ospite centenario di un ospizio, che si commuove guardando Cappello a cilindro di Mark Sandrich e comincia a spiegare all’amica Elaine (Eve Brent) la sua storia. Il film ci porta attraverso le sue parole agli anni ’30, quando Paul (Tom Hanks da giovane) era una guardia carceraria, a capo per diversi anni proprio del “Miglio Verde”, il braccio della morte dove sostavano per diverso tempo i condannati a morte in attesa della sedia elettrica. Compito ingrato ma che Paul ed i suoi sottoposti, Brutus Howell (David Morse), Dean Stanton (Barry Pepper) e Harry Terwilliger (Jeffrey DeMunn) portano avanti con intelligenza e senso del decoro. Solo il giovane, sadico e raccomandato agente Percy Wetmore (Dough Hutchinson), parente del Governatore, si distingue per sadismo e crudeltà verso i detenuti. Tutto cambia per loro nel momento in cui arriva nel “Miglio Verde” il gigantesco John Coffey (Michael Clarke Duncan), un erculeo afroamericano condannato per lo stupro e l’omicidio di due sorelline, un crimine che ha fatto scalpore nello Stato.
Tuttavia, nel giro di pochissimo tempo, Tom e gli altri cominceranno a intuire che c’è qualcosa di strano in quell’uomo, che pur se dotato di una forza fisica colossale, è anche una creatura timidissima, bonaria, che ha paura del buio e non farebbe male ad una mosca. A conti fatti, è il più improbabile “ospite” che il loro lugubre reparto abbia mai contenuto in quegli anni. Il Miglio Verde parte da questo dubbio per poi ampliarlo, renderlo gigantesco, sorprenderci, almeno per quanto riguarda il legame tra sogno e realtà, tra possibile e impossibile. Lo fa mostrandoci come questo gigante abbia delle proprietà curative incredibili, che dona senza chiedere nulla in cambio al prossimo. Fino all’ultimo John cercherà di aiutare come può chi gli sta attorno con i propri poteri, ma ciò che rende Il Miglio Verde così interessante è che, collegandosi a tematiche come quelle del peccato, dell’espiazione, così come ad una ombreggiatura più connessa alla mitologia antica, fa di questa sorta di guaritore, il portatore di qualcosa di ambiguo. Salvatore dei più deboli, John non lo può essere di sé stesso, di fatti diventa anche il volto della sofferenza che si accompagna all’empatia, quella più profonda, quella più universale.
Un racconto sul concetto di memoria e di limite gnoseologico
Per tutto il film, John Coffey è costretto a farsi carico della sofferenza dei ricordi e dell’identità degli altri, ed è un qualcosa che alla fin fine gli risulterà tanto insopportabile, da rifiutare persino la possibilità di salvarsi, di fuggire, che Tom e gli altri alla fine decidono di donargli. Frank Darabont ha una mano semplicemente sontuosa nel fare de Il Miglio Verde un melodramma tanto commovente, da risultare in alcuni momenti assolutamente straziante. Ma questo è anche un film feroce e impietoso. Lo è grazie a Hutchinson e il suo Percy, ma anche ad un bravissimo Sam Rockwell ed il suo Wild Bill, il detenuto più malvagio, infido e pittoresco. Sono due lati della stessa malvagità, quella squilibrata, folle, quella che atterrisce l’America da sempre. Il Miglio Verde grazie a caratteristi di lusso come Michael Jeter, Graham Greene e Harry Dean Stanton ci mostra una realtà carceraria terribile e opprimente, ma dove l’umanità sopravvive nella capacità da parte di detenuti e prigionieri, di donarsi speranza e rispetto gli uni verso gli altri. La sedia elettrica, mostro di ferro ed elettricità, è protagonista di scene d’esecuzione terribili che Darabont dirige con mano sicura.