mercoledì, Febbraio 5, 2025

L'enclave cyberpunk cinese che ha ispirato Stray

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Per giocare a Stray – il videogioco del momento –  si vestono i panni di un gatto. Per molte persone è bastato questo per precipitarsi ad acquistare il titolo, un aspetto di cui Blue Twelve Studio –  la società fondata da ex dipendenti di Ubisoft che ha sviluppato il gioco – è ben consapevole: fin dall’inizio, Stray punta spudoratamente sui meme che probabilmente ispirerà il soriano rossiccio al centro del gioco .

Gli spunti non mancano: basta premere O per miagolare. Con L e R ci si fa le unghie sugli alberi (e i mobili). Potrete fare le fusa e schiacciare pisolini nelle fessure dell’ambientazione. Negli intermezzi vedrete il gatto ballare su una tastiera, saltellare su pianoforti e scombinare giochi da tavolo. Grazie a una partnership con l’azienda Travel Cat, poi, è spuntata anche una collezione di pettorine e zaini per gatti ispirati al gioco.

Le discussioni intorno a Stray si sono giustamente concentrate sul gatto, che rappresenta a tutti gli effetti la star del gioco. Qui però vorrei dedicarmi a un altro aspetto: l’enorme influenza della città murata di Kowloon sul titolo di Blue Twelve Studio.

Stray è ambientato in un mondo post-apocalittico. Gli esseri umani sono scomparsi, lasciando campo libero ai gatti. Il gioco si apre con quattro felini che si riparano dalla pioggia in una struttura di cemento ricoperta da rampicanti. Durante la vostra passeggiata quotidiana tra le rovine della civiltà industriale, precipitate nell’oscurità atterrando in una fognatura. Curiosando in un laboratorio, troverete un drone chiamato B12 che, dall’interno di uno zaino, vi permetterà di eseguire azioni che normalmente richiederebbero pollici opponibili, come usare torce e chiavi, oltre vi consentirà di interpretare il linguaggio umano.

Lo scenario è stranamente familiare. Nel 1993, William Gibson – lo scrittore di fantascienza considerato il padre del cyberpunk – visitò Singapore, che definì come una “Disneyland con la pena di morte. Durante il volo di ritorno, l’autore confessò di nutrire una speranza irrealizzabile: vedere per la seconda volta la sua ossessione del momento, “prima che il futuro venga a demolirla“. L’ossessione in questione era la città murata di Kowloon, che Gibson descriveva in questi termini: “Alveare di sogni. Quelle finestre spaiate e non calcolate. Sembravano assorbire tutta l’attività frenetica dell’aeroporto di Kai Tak, risucchiando energia come un buco nero. Mi sentivo pronto per una cosa del genere”.

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