sabato, Dicembre 21, 2024

Venezia 80, giorno 7: cronache di cinema e non solo

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Ieri, lunedì, è stata una giornata particolarmente frenetica. Ci sono stati molti film da vedere, incontri da seguire, giri per il Lido da fare perché, lo sapete, per noi è importante vivere anche il polso del pubblico qui alla Mostra del Cinema. Abbiamo, infatti, visto una gran folla ad accogliere il tappeto rosso del film Priscilla di Sofia Coppola. I due giovani attori, Cailee Spaeny e Jacob Elordi, hanno richiamato un foltissimo gruppo di fan in cerca dell’autografo o della foto. Questi hanno, un po’ a sorpresa, anche chiamato Priscilla Presley. Diciamo a sorpresa perché è senz’altro un’icona senza tempo, ma non credevamo potesse essere apprezzata anche dai più giovanissimi. C’è da dire che red carpet così nutriti quest’anno non ne abbiamo visti. C’è stata gente, anche nel fine settimana, però non le folle che, ad esempio, impedivano il passaggio a piedi di fronte al Palazzo del Cinema nelle stagioni passate. La direzione della Mostra, proprio oggi ha diramato un comunicato stampa, dicendo che c’è stato un incremento notevole nell’acquisto dei biglietti da parte del pubblico, e questo è un valore positivo, ma la presenza degli amanti dei divi è stata minore. Lo sciopero degli attori di Hollywood si è fatto sentire e ha fatto specie vedere che fuori dalla Sala Grande ad attendere la delegazione del film Maestro di Bradley Cooper sabato non c’era una bella folla, ma un discreto e rilevante numero di persone, proprio perché il regista e tutto il cast hanno aderito allo sciopero. Insomma, le assenza della parte attiva e più casinista al Lido si sono sentite. C’è chi dice, tra giornalisti e la direzione della Mostra, che il pubblico cerca anche gli autografi e le foto dei registi, ma non si sono accorti che quel clamore nei confronti di questi ultimi c’è sempre stato, solo che gli altri anni era sepolto dalle urla per gli attori. L’anno prossimo quando torneranno i divi, i registi non verranno più contati come calamite per il pubblico. È così. In ogni caso, in merito a ieri dobbiamo relazionarvi su un paio di questioni, quindi apriamo queste cronache con la sezione “Torniamo per un attimo a ieri”.

Torniamo per un attimo a ieri. Ci ha fatto davvero tenerezza e scaturito un filo di commozione vedere Woody Allen e le attrici protagoniste del suo film Coup de Chance sul tappeto rosso. Il regista americano si porta i suoi anni, ma con voglia ha partecipato al gioco di scatti con i fotografi e ha salutato il pubblico. Forse sbagliamo, però abbiamo avuto la sensazione che il vecchio Woody con Venezia 80 ha chiuso le sue partecipazioni ai grandi festival. Il suo sguardo dimesso, la sua timidezza, più accentuata del solito, il modo in cui era portato da un punto e l’altro del red carpet ci hanno suggerito che ormai a 88 anni e con il suo 50° film, abbia terminato la sua vita festivaliera. Poi farà altri film sicuramente, ma il bagno di folla del festival non lo vedrà più partecipe. Poi, Woody Allen è un gran furbo, quindi è capace di tutto, anche di fare altri dieci film e portarli in giro per il mondo, però ieri ci ha restituito questa sensazione.

Dal tappeto rosso, ci spostiamo in sala stampa e per la sezione “La voce della sala stampa” vi relazione su quanto detto dal regista Ryusuke Hamaguchi, dalla musicista Eiko Ishibashi e dagli attori presenti alla conferenza stampa del film Evil Does Not Exist, concorso. Brevemente di cosa parla il film e prendiamo spunto dalla sinossi fornita sul catalogo: «Takumi e la figlia Hana vivono nel villaggio di Mizubiki, nei pressi di Tokyo. Come altre generazioni prima di loro, conducono una vita modesta assecondando i cicli e l’ordine della natura. Un giorno, gli abitanti del villaggio vengono a conoscenza del progetto di costruire, vicino alla casa di Takumi, un glamping, inteso a offrire ai residenti delle città una piacevole fonte di “evasione” nella natura. Quando due funzionari di Tokio giungono al villaggio per tenere un incontro, diventa chiaro che il progetto avrà un impatto negativo sulla rete idrica locale, e ciò causa il malcontento generale. Le intenzioni contraddittorie dell’agenzia mettono in pericolo sia l’equilibrio ecologico dell’altopiano sia lo stile di vita degli abitanti, con profonde ripercussioni sulla vita di Takumi». Dalle parole del regista giapponese è emerso che il film nasce dalla collaborazione con la musicista Ishibashi con cui Hamaguchi ha collaborato per la sua performance Gift. Lui ha creato appunto le immagini che hanno accompagnato la musica, con l’obiettivo comune di generare delle storie attraverso l’interazione tra immagini e musica. Successivamente con il materiale utilizzato è stato creato il film. A dicembre 2022 Hamaguchi ha cercato la location, per poi cominciare a girare tra febbraio e marzo. Il discorso del regista, poi, si è focalizzato sui temi della natura e dell’ecologia primari nel film. Ha affermato che la location è stata scelta appunto perché non proponeva solo un contesto naturale adeguato, ma era un luogo in cui natura e uomo si integravano perfettamente. Lui stesso attraverso questo film, ha scoperto il suo legame con la natura in quanto ha sempre vissuto in aree urbanizzate; a Tokyo non ci sono molti parchi pubblici e l’unica natura presente sono alcuni alberi lungo le strade. Per questo, in Evil Does Not Exist, Hamaguchi voleva osservare la natura in una prospettiva di movimento in quanto, sostiene, che la natura ci fa guarire, ci fa stare bene e su questo principio è nata la prima scena. A tal proposito, il regista ha anche aggiunto che i movimenti di acqua, degli alberi e della natura in generale sono nati in accordo con la musica e che ha voluto inserire la presenza umana per rendere il film più interessante. Ha concluso questa parentesi sulla questione ambientale, affermando che non voleva né criticare, né dimenticarsi di questa questione; e inoltre, con questo film ha voluto affermare che deve esserci equilibrio tra uomo e natura. Il dialogo è molto importante ed è sinonimo di rispetto. Questa le parole di Hamaguchi.

E il cinema? Eccolo! Sempre ieri, lunedì, come anticipato nelle Cronache dal Lido di ieri abbiamo visto due film: Snow in the Midsummer delle Giornate degli Autori e Shadow of Fire di Shinya Tsukamoto. Partiamo da quest’ultimo perché dobbiamo dirvi un paio di cose preliminari. In attesa che iniziasse il film, dietro di noi abbiamo visto aggirarsi il regista Tsukamoto, che fotografava la sala mano a mano che si riempiva. Ha parlato con Maria Roberta Novielli, docente e collaboratrice esterna della Mostra per il cinema giapponese, e in un momento in cui era solo, ne abbiamo approfittato per farci fare un autografo, che vedete qui a fianco. Durante la proiezione, Tsukamoto è rimasto tutto il tempo in piedi in fondo, anche quando riceveva gli applausi della sala.

Parliamo del film quindi. Shadow of Fire, Ombre di fuoco in italiano e Hokage in giapponese conclude (forse), sicuramente prosegue, nel cinema di Tsukamoto il tema della guerra e di come sia devastante per l’uomo, punto di analisi già affrontato in Fires on the Plain, Nobi in giapponese, e Killing, Zan in giapponese. Per la sua nuova opera cambia periodo storico per rimanere sempre in Giappone, questa volta devastato dalla Seconda guerra mondiale. Le città sono bruciate, è rimasto un cumulo di macerie e le persone sopravvivono come possono. Il film propone due punti di vista: una donna, rimasta vedova, ridotta a prostituirsi e un ex soldato, con un braccio fuori uso, che ruba per cercare di campare e in cerca della sua vendetta. In mezzo nelle vite dei due si muove un bambino. Lui non è solo il legame tra le storie nella sua necessità di sopravvivere, ma è anche colui che, proprio perché ancora apparentemente innocente, per quanto per necessità di vita sia costretto a rubare e maneggiare una pistola, riesce a insegnare agli adulti la speranza. Le immagini di Tsukamoto sono come sempre potentissime. È uno dei pochi registi ad oggi che usa il digitale con la profondità visiva della pellicola; per questo le case bruciate, gli occhi dolorosi, la natura violata dagli uomini per sopravvivere vivono e coinvolgono lo spettatore nella storia. Poi c’è la sua tecnica che porta lo sguardo di chi osserva a vedere determinati dettagli o momenti di vita dei personaggi utili all’evoluzione della storia. Questo film, come i precedenti, non è scritto basandosi su delle invenzioni narrative che permettono il prosieguo della storia, ma si basa sulla scoperta di elementi narrativi a poco a poco attraverso cui arrivare al suo compimento, lasciando allo spettatore la possibilità di metterli insieme. Uno degli elementi diegetici rilevanti in Shadow of Fire è appunto la natura. Tsukamoto la utilizza non solo come stacco visivo dalle brutture della guerra, ma anche come elemento di confronto. Sembra quasi che la natura, intesa come foreste, alberi, vegetazione, sostentamento, dica all’uomo:«Tu continui a ucciderti, mentre io continuo a produrre beni che tu mi rubi per sopravvivere». Il regista giapponese quindi, pone l’elemento naturale a fondamento del risanamento dell’uomo che descrive sempre più fratricida, pazzo, capace solo di procurare dolore e sé e agli altri. Non ci sono momenti di stasi, né scene discutibili. Shadow of Fire è un film che funziona, orribile per ciò che mostra, ma convincente per tutti gli elementi di cui si compone. 

Restiamo in ambito di lotta tra gli essere umani, per raccontarvi di Green Border di Agnieszka Holland, in concorso che abbiamo visto oggi. Il film è un pugno nello stomaco in piena regola, perlomeno fino a un certo punto. Riannodiamo il filo. C’è stato un momento nel 2021 quando il presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka ha chiamato in Bielorussia migliaia di profughi siriani, afgani, mediorientali, africani con la promessa di fornirgli un passaggio per l’Europa. I fatti raccontano di migliaia di uomini letteralmente scaricati al confine con la Polonia che per giorni sono stati fisicamente rimpallati tra le due nazioni. Qui sul confine verde e in questo contesto gira il suo film la regista polacca. La prima parte della pellicola si concentra su questo, con la camera a mano, ai limiti del linguaggio documentaristico, che filma la tragedia di queste famiglie rimpallate dalle polizie di frontiera dei due stati, materialmente, da vivi o morti, gettati di peso al di là del filo spinato. La gente muore, si ferisce, patisce nel freddo e i governi, entrambi, giocano con le loro vite e l’Europa brucia di rivalità. E qui il pugno allo stomaco si sente. Bianco e nero, ferite, urla e i gesti abominevoli dei vari soldati che asfaltano la vita dei migranti, sempre interpretati in maniera naturale e veritiera. Nella narrazione si inserisce un altro punto di vista, quello di Julia, interpretata da Maja Ostaszewska, una psicologa, vedova, che vede con i suoi occhi questo scempio e decide di intervenire supportando alcuni attivisti. Questi offrono aiuto, cure mediche, cibo, vestiti ai migranti persi e nascosti in questo confine di foresta. Ecco, nelle vicende di questa donna, il film perde intensità, non perché non sia interessante, ma per una questione di bilanciamento emotivo nella storia. Le immagini, infatti, propongo talmente tanto nella prima parte, raccontano con estrema efficacia il dramma, che una volta assente, il film si spegne. La vita encomiabile di Julia, è raccontata nella voglia di giustizia della donna, nella sua volontà di sostegno, nella sua rabbia e necessità di agire, ma comunque non regge il confronto. Questa parte della narrazione è utile, perché mostra come si muove l’attivismo con tutti i suoi problemi e sottolinea l’impegno civile della donna, ma è più narrativo, più storia rispetto al tagliente occhio documentaristico della prima parte, seppur si tratti di finzione. La storia di Julia poteva funzionare meglio se fosse stata montata intersecandola con l’altra storia, quella dei migranti, come la sottostoria sul soldato Jen. Questo è un militare della polizia di frontiera che comprende quello che vede e arriva alla sua trasformazione. Si capisce questa evoluzione perché il processo è raccontato pezzo dopo pezzo, contrapponendolo alla storia dei migranti. Green Border comunque rimane un film di un grande impegno civile, valido, aderente alla ultracontemporaneità come solo il cinema può e sa fare. Una piccola breccia sull’oggi nel concorso di Venezia 80. In merito a questo film, vogliamo segnalare l’impegno civile di Agnieszka Holland che in conferenza stampa oggi ha letto una nota di un profugo siriano chiedendo un minuto di silenzio per tutti i morti sul confine verde.

Chiudiamo il racconto di questa giornata di film con Snow in the Midsummer del malese Chong Keat Aun. L’opera quarta del regista si focalizza su un momento della storia malese dimenticato e sepolto nella memoria. Il 13 maggio 1969 a seguito di tensioni postelettorali, a Kuala Lumpur scoppia una rivolta. Durante la rappresentazione del testo teatrale Neve a giugno, la sommossa è repressa nel sangue e la protagonista della pièce teatrale, nonché capo della troupe Dou E. è uccisa. Anche Ah Eng perde il fratello e il padre durante la concitazione. Negli anni la donna è rimasta a quel giorno, fino a quando decide di cercare il cimitero delle vittime. La pellicola si divide in due parti, la tragedia e la ricerca di rinascita; al centro la donna protagonista attraverso cui si capisce l’evento storico, supportato anche dall’utilizzo di documenti storici e registrazioni vocali dell’epoca. L’obiettivo, quindi, del regista appare quello di documentare e rendere manifesto questo momento tragico della storia del suo Paese. Ciò si percepisce a fatica solo nel finale, perché in realtà la pellicola si innesta più sulla ricerca linguistica ed estetica che sulla vicenda. Forse perché della vicenda si conosce davvero poco, ma il regista si perde in inquadrature con la camera fissa, in movimenti lentissimi di macchina, si impegna troppo nel cercare le posizioni della macchina da presa che possano essere più metaforiche possibili, ma poi? Quando la donna nella seconda parte si incammina verso il cimitero, l’azione prende vita, seppur rallentata, però è un po’ troppo tardi. Snow in the Midsummer rimane nella mente del regista anche perché ha voluto raccontare una singola storia nella tragedia globale. Se si fosse attenuto a uno o all’altro elemento narrativo senza metterli insieme (magari la storia della donna, lasciando la repressione come elemento di cornice, come rimando), la narrazione avrebbe avuto più presa e Chong Keat Aun avrebbe messo il suo linguaggio più al servizio della storia. 

Per oggi credo che vi abbiamo detto abbastanza. Pensando al Concorso, noi ci siamo fatti un’idea sulla base dei film finora presentati che potrebbero concorrere ai premi. Salvo sorprese solo Io capitano di Matteo Garrone, in programma domani, può rimescolare le carte. Allo stesso tempo, però tutto può ancora accadere anche considerando una cosa: come fa una giuria a giudicare ventitré film per otto premi? Non vi sembra un po’ troppo sbilanciata la misura? Ci saranno degli ex aequo oppure un palmares che premia tutte le cinematografie svilendo così il senso dei premi che sono assegnati tanto per darne uno a ciascuno. Che ne dite? A domani!

Crediti fotografici.
Foto 1, Photocall, Hokage (Shadow of fire), Film delegazione (Credits, Giorgio Zucchiatti, La Biennale di Venezia – foto ASAC) (1)
Foto 2, Red carpet, Coup de chance, director Woody Allen (Credits, Giorgio Zucchiatti, La Biennale di Venezia – foto ASAC) (1)
Foto 3, Press conference, Evil does not exist, director Ryusuke Hamaguchi (Credits, Andrea Avezzù , La Biennale di Venezia – foto ASAC) (1)
Foto 5, Hokage, Shadow of fire, actor Oga Tsukao
Foto 6, Zielona Granica (Green border) – official still (2)

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