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“La fantasia mi è stata più vicina della realtà”. Da reietto (in)compreso e outsider, come ancora si definisce, a visionario autore politically (in)correct) del cinema, Tim Burton è tra i pochi ad aver raccontato così bene il confine tra onirico e verità, tra grottesco e comico. Il suo mondo prende forma nella mostra-evento itinerante da anni, “The World of Tim Burton”, questo è il titolo, dall’11 ottobre 2023 al 7 aprile 2024, in scena al Museo Nazionale del Cinema di Torino. La sede perfetta, “tra gli allestimenti migliori, è come essere in un parco di divertimenti”, dice”, per quel connubio di vortici architettonici, spirali, verticalismi, che vanno di pari passi con le sue storie bizzarre, uniche La prima volta in Italia, 900mila euro di investimento, quasi sei mesi in allestimento, un record, e chissà che non possa protrarsi,viste le aspettative, l’esclusività dei materiali esposti e il desiderio di molti di tuffarcisi in maniera trasversale e generazionale. Burton percorre il violet carpet (ieri sera ha ricevuto il prestigioso premio Stella della Mole, oggi farà una Masterclass già sold out al Cinema Massimo), e ciò che si ha davanti è davvero un sogno a occhi aperti.
Il percorso espositivo a Torino
Ben 540 tra disegni (dell’infanzia e degli esordi), bozzetti, sculture, maquette, dipinti, pupazzi, storyboard preparatori, concept art, fotografie, documenti personali, divisi in nove sezioni, per quello che è a tutti gli effetti un viaggio tematico e visionario, dal Surrealismo Pop che narra il subconscio creativo di uno dei maggiori inventori di immagini.
Un percorso che è fatto anche di tendenze e colori, ed in cui sono concentrate idee, contaminazioni, passioni, oggetti, incubi, dal periodo in cui da ragazzo e universitario si nutriva di horror e film di fantascienza, a quello che poi lo ha portato ai suoi capolavori più celebri Batman, Nightmare Before Christmas, Charlie e la Fabbrica di cioccolato, Beetlejuice (sta girando il seguito), Big Fish, Mars Attacks! fino ai recenti Dumbo, o la serie Netflix di Mercoledì, su cui è già sulla seconda stagione. È un Burton che fa viaggiare per il mondo attraverso ad esempio la collezione dei disegni realizzati nei quaderni, sketchbook creativi realizzati nei viaggi, negli alberghi o sui tovaglioli colorati dei ristoranti, nati, come spesso gli è accaduto dalla sua immaginazione e da una forma di action painting. Ci sono le polaroid, realizzate tra il 1992 e il 1999 producendone diverse serie di stampe di grandi dimensioni, scatti che esprimono temi ed elementi presenti nei suoi film, di ambientazioni, e di pupazzi provenienti da alcuni set, o che riguardano parti del corpo smembrate, i cui corpi si ricuciono in lavori come La sposa cadavere.
Una lunga storia
Burton racconta gli inizi, lo fa, nella mostra attraverso i fumettisti e illustratori classici che lo hanno ispirato: da Edward Gorey, Charles Addams, Don Martin e Dr. Seuss, grazie agli appunti e gli schizzi del periodo degli studi di CalArts in cui si puà capire qual è stata la sua formazione. Piccoli gioielli rivelatori riguardo le influenze cinematografiche: i film giapponesi di mostri, il cinema espressionista, gli horror degli Universal Studios, i maestri dell’animazione stop-motion George Méliès e Ray Harryhausen, uno dei suoi attori prediletti Vincent Price, e, come sottolineerà nell’incontro di presentazione, Mario Bava, di cui vide i primi lavori nella sua città, a Burbank, e Fellini. Ma la cosa affascinante è che il percorso espositivo è in evoluzione, dal basso verso l’alto: ogni momento, fase dell’esplorazione, sembra un’avventura a cui avvicinarsi piano piano, e lì serve tempo per osservare i dettagli, le sfumature, le opere figurative, il suo immaginario arricchito di linguaggi e stili, di installazioni, di progetti non realizzati e incompiuti, di personaggi discriminati, ai margini della società, come Edward Mani di Forbici o Jack Skeletron,che con, e grazie a lui, hanno trovano un proprio posto da protagonisti memorabili.
Burton parla di sé, ma preferisce ponderare le parole e far dialogare tutto ciò che lo circonda e ha deciso di mostrare. “Odio guardare me stesso, a casa copro addirittura gli specchi”, scherza. “L’industria sta cambiando è vero, ma per fortuna la gente ama ancora il cinema, la tv non ha sostituito la sala. Adoro la pellicola, ma nello stesso tempo tutti gli strumenti disponibili digitali possono restituire in fondi alcune sensazioni, la differenza le fanno le emozioni umane. Se esiste un futuro erede di Tim Burton? Il mio percorso è stato complesso, non c’ho mai pensato. Come ogni bambino volevo solo disegnare, non ero bravissimo, poi l’ho utilizzato come terapia per permettere di tirare fuori le mie idee, un modo di esplorare il mio subconscio, Non ho ascoltato le critiche delle persone, sono andato avanti”. Burton, come uno dei lavori esposti, alla fine si dimostra quello che abbiamo sempre pensato di lui: l’ultimo della (sua) specie.