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La trilogia manifestò proprio in questo ultimo capitolo il suo profondissimo legame con la mitologia, greca ma pure ebraica e cristiana, e non si tratta semplicemente di nomi di divinità o personaggi, di vaghi accenni, ma della concezione stessa del percorso del protagonista. Neo riporta in vita la concezione dell’eroe di Sofocle: egli è solo, incompreso, lotta contro tutto e tutti, costretto dal fato (tema ricorrente nella trilogia) a battersi sempre e comunque, anche senza speranza apparentemente. Ma è tramite la lotta che Neo capisce chi è veramente in questo capitolo finale, capisce soprattutto l’importanza della scelta, anche quando non compresa pienamente e del libero arbitrio. Lo stesso Oracolo gli fa comprendere che in fondo è sempre stato tutto nelle sue mani, compresa la volontà o meno di sapere di più. Mary Alice (subentrata a Gloria Foster) diventa nei panni dell’Oracolo ancora più simbolo dello Yang, tanto quanto l’Architetto è simbolo dello Yin. Neo? Neo è ciò che vi è prima e dopo una scelta, è la distruzione di una strada già segnata e scritta, di un vicolo cieco semantico, è la scelta personale, quel qualcosa che va oltre l’aritmetica, la prevedibilità e abbraccia l’essenza di ciò che siamo in quanto esseri umani. Tutto questo ci arriva alla fine di un film dove la ricerca della luce è premio e meta, esemplificata da quell’impennata su in cielo di Neo e Trinity, quell’istante sopra le nubi della città delle macchine, che vale in fondo tutta un’esistenza, quella che ci è voluta per uscire dalla caverna Platone e raggiungerla.
L’ultimo frammento di una profezia
Come villain, l’Agente Smith in Matrix Revolutions fu colui in cui le Wachowski inserirono il concetto stesso di pericolo per l’identità individuale, da parte di una dittatura dell’omologazione che oggi conosciamo molto bene. Neo, reso cieco come fu Tiresia, vede però più degli altri, vede la verità oltre la carne, infine strappa una sorta di accordo ad una Matrix, che si palesa quasi citando Dante Alighieri: un volto che contiene ogni viso e nessuno assieme. Matrix però è sciame, è IA avanzatissima (ed ecco il punto fondamentale di questo film) ed ha anche un’emotività, perché essa è basata sull’interazione, qualcosa che l’uomo imita e ricrea. La battaglia finale tra i due alter ego, sorta di omaggio delle Wachowski ai superuomini di DC e Marvel, è l’eterna lotta dentro di noi e fuori da noi, nel mondo, è il bilanciamento di un’equazione in cui l’uomo gioca il ruolo chiave, risolutivo, il far finire tutto perché qualcosa di nuovo ricominci. Certo, non si può negare che a suo tempo lasciò interdetto il pubblico, dimentico dell’eroe greco che da Omero a Senofonte, trova nella morte non la fine ma il compimento del suo destino e del suo scopo. Matrix Revolutions aveva ovviamente dei difetti, da molti fu definito come anti climatico, quasi a suggellare una delusione connessa anche alla natura distante dalla prevedibilità dell’insieme. Ma non si può negare l’incredibile caratura estetica, la grandiosità con ci viene dato il più straordinario scontro bellico post apocalittico di sempre, una sorta di Termopili cyberpunk che ancora oggi si mette in tasca il concetto stesso di scontro finale.
Intanto però ecco dominare il tema del fatto, del destino, lo si connette a una sorta di visione matematica della vita, in perfetta contrapposizione con ciò che siamo, quel “così ho scelto” che Neo abbraccia, ricollegandosi alla speranza come più grande forza dell’umanità. Eppure, gli spettatori che all’epoca affollavano le sale cinematografiche, erano tutti diversi l’uno dall’altro, appartenevano anche a quella subcultura giovanile che col tempo è scomparsa. È stata la tecnologia a farlo, in modo non differente da come fa l’Agente Smith: rendendo tutti quanti noi fotocopie di fotocopie. Qualcosa che oggi vediamo anche nei prodotti culturali, elemento che lo stesso Martin Scorsese ha sottolineato recentemente, al netto di critiche feroci. Matrix? Esiste, sono colossi come la Disney a rappresentarlo in pieno, ma è un po’ tutta la nostra società del XXI secolo ad essere diventata sempre più lontana dalla luce, quasi che la comodità valesse più del libero arbitrio, così come teorizzato proprio da Smith nel primo film. Al netto di innegabili difetti di equilibrio e di momenti mal gestiti, Matrix Revolutions, con il suo unire ancora una volta filosofia occidentale e orientale, ha sugellato il vero finale della saga in modo coerente. Il quarto capitolo? Un ironico sberleffo alle Majors, ai prodotti culturali in scatola, alla dittatura delle equazioni, degli algoritmi che oggi dominano le nostre vite. La lezione finale è quella che abbiamo dimenticato: la vera battaglia contro Matrix non è lì fuori, ma è un regno della mente.