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Sulle concessioni balneari “ci sono varie opzioni: dalla possibilità di non applicare la direttiva europea fino a ipotesi intermedie”. Parola di Carlo Fidanza, capo delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, sulle strade che l’esecutivo potrebbe imboccare entro la fine dell’anno, quando scadranno le concessioni in essere. A parte la leggerezza con cui, dopo una procedura d’infrazione europea e pronunce assortite e inequivocabili dei massimi organi della giustizia amministrativa italiana, allude alla possibilità di non applicare una normativa europea – facendo pagare multe a tutti gli italiani per proteggere una categoria che moltissimo ha raccolto in ottant’anni di favoritismi – possiamo essere certi di un fatto. E cioè che qualsiasi “ipotesi intermedia” non andrà bene, perché in quel tribolato settore non possono esistere ipotesi intermedie.
Ce n’è solo una di ipotesi, sul tavolo. Anzi, è una tesi che ci ripetono da 17 anni, cioè dall’approvazione della sacrosanta direttiva Bolkestein: rilascio e rinnovo delle concessioni con procedure pubbliche trasparenti e imparziali, che consentano ad altri operatori di subentrare se le loro offerte risultino qualitativamente migliori alla luce di parametri aggiornati alle necessità di un ecosistema sempre più fragile, al contempo adeguando i canoni corrisposti allo Stato, oggi grotteschi. Insomma, liberalizzare le concessioni pubbliche.
Secondo Nomisma, il giro d’affari del settore si muove intorno ai 15 miliardi di euro (ma i balneari contestano da sempre quell’indagine che si riferirebbe a un indotto più ampio, riducendo il business effettivo a un miliardo circa). Lo Stato, stando agli ultimi dati della Corte dei Conti del 2020, ha invece incassato 92 milioni e 566mila euro per circa 12.166 concessioni “a uso turistico”. In molti casi i canoni sono compresi fra mille e 5mila euro l’anno, sebbene dal 2021 esista una soglia minima di 2.500 che viene aggiornata con l’inflazione: in ogni caso poche centinaia di euro al mese per il diritto intoccabile e inalienabile – spesso tramandato per tradizione di famiglia – di disporre indefinitamente di un tratto demaniale che in realtà appartiene a tutti. E se in certe località gli stabilimenti rispondono in effetti ai criteri previsti migliorando il quadro complessivo dei servizi, altrove sono spesso ostacolo alla fruizione del bagnasciuga ed esercitano un odioso monopolio. Non si capisce, insomma, questo scellerato patto lungo più di mezzo secolo cosa abbia portato alla qualità del turismo italiano se non prezzi molto alti, nelle località più note poca spiaggia libera e in molti casi costruzioni e strutture che difficilmente si potrebbero definire rimovibili.
Vendere le spiagge
Nel 2021 il Consiglio di Stato ha stabilito con una sentenza la scadenza della validità delle concessioni al 31 dicembre di quest’anno: dall’anno prossimo non saranno più valide e soprattutto qualsiasi tentativo di approvare nuove proroghe con cui si va avanti da anni sarà da considerare “senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’Unione Europea”. Siamo dunque agli sgoccioli e il governo, anziché applicare finalmente la normativa, sta cercando una scivolosa via d’uscita. L’ennesima. Secondo Repubblica potrebbe essere addirittura quella di allargare la torta: non toccare le concessioni attuali ma mettere a gara altri tratti di spiagge libere. Un’ipotesi che a onor del vero per ora non sta nelle parole di Fidanza né di altri esponenti politici ma che si allineerebbe alla narrazione su cui i sindacati balneari hanno fortemente insistito negli ultimi mesi: la spiaggia libera non è una risorsa scarsa, dicono. Per cui, il problema delle concessioni non esisterebbe.
Le imprese del settore mancano ovviamente il punto, e sanno di mancarlo: Bolkestein dice che, fosse anche una sola la concessione su migliaia di chilometri di arenile, ebbene quella concessione andrebbe sottoposta a gara pubblica europea. Fine. Che le spiagge libere, come sostengono gli addetti ai lavori del settore in base a una mappatura realizzata dal governo e dalle stesse organizzazioni (ma affidarla a un organismo terzo e imparziale, no?), costituiscano il 67% del totale non cambia la questione di fondo. Si parla di concorrenza, non sta scritto da nessuna parte che il 100% delle spiagge italiane debba trasformarsi in uno stabilimento con ghiaccioli, lettini e pedalò. E no, non ci sono “tossicodipendenti e rifiuti”, come ebbe a dire con una delle sue uscite la ministra del Turismo Daniela Santanché.
Per cui, anche se il famigerato Siconbep – così si chiama il sistema messo in piedi per mappare i beni demaniali – riportasse informazioni davvero accurate, quei dati non conterebbero nulla rispetto alla ratio di quella direttiva, nei fatti disapplicata da quasi vent’anni con grave danno per le casse pubbliche. Occorre indennizzare chi, davvero, abbia realizzato strutture rimovibili che hanno concretamente migliorato i servizi su alcuni tratti di arenile e in generale chi abbia effettuato degli investimenti significativi e nella piena legalità nel corso del tempo, nessuno lo nega nonostante i canoni siano stati perlopiù irrisori, già di per sé stessi in grado di ammortizzare quanto investito. Lo sostiene anche una recente sentenza del Consiglio di Stato particolarmente evidenziata dai balneari, che però esclude appunto ogni rinnovo automatico. Quanto al resto, però, bisogna tenere alta l’attenzione perché, all’interno di qualche provvedimento in discussione alla Camera o al Senato e da approvare entro la pausa natalizia, la maggioranza tenterà senz’altro di infilare un’irricevibile strategia di mantenimento dello status quo.