venerdì, Dicembre 27, 2024

Anatomia di una caduta – Recensione

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Sandra e Samuel abitano vicino Grenoble sulle Alpi francesi. Sono due scrittori, lei tedesca, lui francese, si sono conosciuti a Londra e parlano inglese. Hanno un figlio Daniel, undici anni, ipovedente a causa di un incidente stradale all’età di quattro anni. La loro casa è un eremo di legno che svetta in mezzo alla neve. Dentro casa, come nella coppia, regna il gelo, il freddo; infatti Sandra e Samuel sono ai ferri corti. Un giorno in casa, mentre una giornalista intervista Sandra e tra loro si instaura un feeling, Samuel è al piano di sopra che ristruttura il sottotetto, ascoltando una musica ad altissimo volume, a tal punto che l’intervista deve essere interrotta, la giornalista va via e Samuel è trovato dal figlio Daniel, al rientro da una passeggiata con il cane, morto a terra di fronte casa con la testa rotta. Chi è stato? Omicidio o suicidio? Un lungo processo che porta all’emersione il rapporto di coppia tra la gelida Sandra e il più emotivo Samuel, cerca di trovare un colpevole, se davvero esiste.
Anatomia di una caduta si svolge primariamente in un’aula di tribunale. Il corpo centrale del film è il processo mosso dal pubblico ministero contro Sandra (Sandra Hüller) per l’omicidio del marito. Durante le audizioni dei testimoni, le dichiarazioni della donna, le ricostruzioni dei periti sulle dinamiche della caduta, i monologhi degli avvocati, le domande del giudice e i dubbi e i momenti di scontro tra le parti, attorno a tutte queste azioni si spiega il film ossia il rapporto tra i due coniugi. Si capisce che il rapporto era logoro, composto da continui scontri, a volte violenti, in inglese, sull’educazione del figlio, sul senso di colpa del padre per l’incidente subito dal figlio Daniel (Milo Machado Graner), perché c’entra indirettamente, sulle mancanze della donna verso le richieste di aiuto e sostegno del marito, il quale di trova in crisi depressiva e in cura da un’analista. Sandra, dal canto suo, imperturbabile, mai troppo gelida, ma nemmeno emotiva, cerca di scrollarsi le accuse del marito e le eventuali colpe. Eppure lei l’ha tradito, eppure lei stava intessendo con la giornalista uno scambio di sguardi, battute, risatine, mezze frasi piuttosto ambigue sotto l’occhio e l’orecchio del marito. Dal processo emerge tutto questo e l’idea di spiegare il rapporto della coppia da parte della regista, Justine Triet, mostrando solo allo spettatore la rappresentazione visiva di una lunga scena di una litigata tra i due che Samuel (Samuel Theis) aveva registrato in formato audio e che è ascoltata in tribunale come prova, è una buona strategia narrativa per esemplificare la profonda e poco risanabile crisi tra i due. Quindi, stando a questo, Anatomia di una caduta è un film su una crisi di coppia? Vero in parte, in quanto sicuramente questi indizi narrativi spingono verso questa tesi, anche considerando che delle due ore e mezza totali del film, la scena del processo insiste su più di un’ora e mezza; dall’altro lato, però, il film inizia e cerca di svolgersi in un’altra maniera ossia come un thriller. I primissimi piani di Sandra e dell’intervistatrice nelle prime immagini del film a sottolineare il loro coinvolgimento, la musica incessante di sottofondo, la presenza/assenza di Samuel poi, quel piano sequenza che accompagna la giornalista fuori dallo chalet, per poi mostrare l‘uomo affacciato dalla soffitta e la moglie affacciata dal secondo piano, entrambi che guardano in direzione della donna, tutti questi elementi instillano nello spettatore l’idea che la pellicola di Triet sia un thriller. Se poi, aggiungiamo, il ritrovamento del cadavere da parte di Daniel e il dubbio che possa essere stato un omicidio, allora è un thriller. A questo, però, considerando la parte del tribunale, la regista si è dimenticata di questo accenno narrativo, per sviluppare un film su un rapporto di coppia logoro, sul folle gesto finale, sui media che si interessano all’evento (aspetto narrativo trattato superficialmente) e su un figlio il cui ruolo non è ben chiaro. Sul ragazzo, infatti, la regista cerca di portare l’attenzione dello spettatore, inquadrandolo con degli zoom lentissimi a testa bassa seduto in tribunale mentre ascolta la distruzione dei genitori, oppure circondando le sue azioni a casa in cui cerca di capire cosa è successo al padre, con una musica sinistra e frenetica così da suggerire l’aspetto più misterioso, sostenuto anche dai suoi occhi raggelati dalla sua ipovedenza. Se Daniel, quindi, potrebbe essere la chiave per capire il mistero della morte/suicidio, Triet si dimentica di dargli una profondità narrativa e lascia a queste rapide inquadrature e a questi fulminei spunti narrativi la sua dimensione emotiva. Cosa prova il ragazzo? Odia la madre, il padre, i genitori o li ama? Come prende tutta la situazione? Diciamo che le inquadrature di lui a capo chino chiariscono davvero poco. Infatti è anche questo uno dei problemi principali di questo film, ossia la mancanza di indagine sugli altri personaggi. Sandra e Samuel sono abbastanza definiti, anche se dei dubbi rimangono, ma gli altri? Anche l’avvocato che difende Sandra, un suo amico, Vincent Renzi (Swann Arlaud) che sembra essere stato molto innamorato di lei in passato, a parte difenderla in tribunale, chi è? Se era così importante per la regista mettere in evidenza in un dialogo tra i due di fronte a una birra, la simpatia amorosa dell’uomo verso la sua assistita, perché non sviluppare questa linea narrativa, magari importante per la risoluzione del mistero, piuttosto che lasciarla cadere in uno sguardo languido e timido? Ancora una serie di domande. Sandra chi è? Una calcolatrice-manipolatrice-assassina oppure un’ingenua donna che subisce tutto il processo ingiustamente? Sandra Hüller è anche brava nel dare corpo alla difesa del rapporto di coppia in tribunale nonostante le prova a sfavore, ma a che fine? Per far capire allo spettatore che lei è gelida, indipendente, frustrata perché voleva vivere a Londra e non in mezzo alla neve?
Tutti questi interrogativi, macroscopici potremmo dire, hanno un’unica grande risposta, ossia che Anatomia di una caduta è un film scritto non in maniera impeccabile. Non ci sono spunti narrativi che conducono avanti la vicenda, non c’è un’indagine sui personaggi che possa motivare la storia, non c’è uno studio sui luoghi, sulle vicende passate, un qualsiasi appiglio narrativo in grado di fare emergere la storia. Ecco perché il film è la scena in tribunale, perché nel dialogo nel dibattito questo lancia allo spettatore un’ancora di comprensione, ma fuori da quelle mura sopravvivono gli interrogativi. E poi la regista dov’è? A parte non aver preso coscienza a fondo della sceneggiatura, e aver girato un film di montaggio, ogni tanto muove la macchina da presa sbilanciando la visione dello spettatore, utilizza fuori fuoco come fosse un esercizio di stile, e dissemina la pellicola di spunti pseudo-thriller che confondono.

Anatomia di una caduta è un film immaturo, abbozzato, da sviluppare e Justine Triet è in cerca di una sua dimensione da regista, ma la vittoria della Palma d’oro al Festival di Cannes non la aiuterà. 

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