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Un nuovo studio condotto dagli scienziati dell’Istituto di di ricerca Sant Pau di Barcellona rivela che i soggetti portatori di Apoe4 omozigoti – che hanno cioè due copie della forma Apoe4 del gene Apoe nel proprio genoma – sviluppano i sintomi dell’Alzheimer più spesso e in età più precoce. Il lavoro suggerisce che la variante dovrebbe essere considerata una nuova forma genetica della malattia e non solo un fattore di rischio.
Cosa dice il nuovo studio sull’Alzheimer
Il team di scienziati guidato dal neurologo Juan Fortea della Sant Pau Memory Unit ha analizzato i campioni prelevati dal cervello di 3.297 pazienti deceduti, conservati dal National Alzheimer Coordinating Center statunitense, e i dati biologici e clinici di altre 10.039 persone per determinare gli effetti della presenza della variante. L’équipe ha scoperto che le due copie di Apoe4 erano presenti nel genoma di 500 individui, che nel 95% dei casi riportavano anche livelli anomali di amiloide nel cervello, una proteina associata al morbo di Alzheimer.
Lo studio afferma che i pazienti con questa alterazione genetica hanno iniziato a manifestare i sintomi della demenza a 65 anni, circa un decennio prima rispetto a quelli che non presentavano due copie di Apoe4.
I risultati suggeriscono che gli effetti della duplicazione del gene soddisfano i tre criteri principali che consentono di identificare la condizione come una malattia genetica e non solo come un fattore di rischio. Gli scienziati sostengono che quasi tutte le persone con la variante nel genoma presentano i primi marcatori biologici dell’Alzheimer, sviluppano i sintomi più o meno alla stessa velocità e riportano disturbi clinici in una sequenza prevedibile.
La nuova forma genetica di Alzheimer sarebbe anche più comune. “Il 2-3% dell’intera popolazione caucasica è portatore di una doppia copia del gene Apoe4, il che equivale a milioni di persone in tutto il mondo – ha spiegato Fortea in un’intervista a El País –. Questa variante rappresenta il 15% di tutti i casi di Alzheimer. Le cause di questa malattia non sono note, ma con questo studio possiamo spiegare il 15% dei casi”.
I possibili risvolti
Gli autori della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Nature Medicine, sostengono che le loro conclusioni possano ottimizzare l’analisi e portare alla creazione di nuovi approcci terapeutici per la patologia. “I risultati suggeriscono che dovremmo trattare [i pazienti con due copie di Apoe4] a un’età più precoce e in una fase iniziale della malattia, perché sappiamo che è molto probabile che progrediscano rapidamente verso un deterioramento”, sottolinea Reisa Sperling, neurologa del Mass General Brigham di Boston, che ha partecipato allo studio. Il prossimo passo sarà quello di analizzare le informazioni e i dati clinici di popolazioni diverse, dal momento che la maggior parte dei campioni utilizzati per la ricerca sono stati prelevati da individui bianchi in Occidente.
Nel mondo le persone affette da una forma di demenza sono oltre 55 milioni, il 60% delle quali vive in paesi a basso e medio reddito. La condizione rappresenta la settima causa di morte ed è una delle principali cause di disabilità a livello globale. Con sette casi su dieci, il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza. È una malattia progressiva, incurabile e irreversibile, che colpisce soprattutto gli anziani: nel 10% dei casi l’Alzheimer si manifesta in soggetti di età superiore ai 65 anni, e nel 47% in individui con più di 85 anni.
Questo articolo è apparso originariamente su Wired en español.