venerdì, Marzo 14, 2025

The Electric State, la recensione del costosissimo (e banale) film su Netflix

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The Electric State sulla carta partiva bene, è tratto dalla graphic novel di Simon Stålenhag. Lui è uno dei maggiori illustratori di fantascienza contemporanei, uno dei pochi con un’idea davvero interessante, capace di declinarla in immagini così evocative che, solo a partire dalle sue illustrazioni (e da un minimo di contesto), era stata tratta una serie: Tales From the Loop. Si tratta di una fantascienza da passato prossimo, gli anni ’80 e ’90 con il loro design e la loro estetica, contaminati da tecnologie futuristiche. In questo caso robot dotati di intelligenza artificiale, utilizzati come animatronic nei parchi, come mascotte pubblicitarie di marchi di noccioline o persino come parrucchieri automatizzati. Robot colorati, dai tratti infantili, con mani guantate grandi come quelle di Topolino e occhi e bocca ispirati ai cartoni animati dei Fleischer Studios che un giorno prendono coscienza di sé e si ribellano. Scoppia una guerra che gli umani vincono, e i robot finiscono confinati in una zona delimitata da un muro.

Sembra District 9 con i robot, la metafora è molto semplice e chiara. A differenza di District 9 però le invenzioni si fermano qui. The Electric State dimostra che le idee di scrittura e di regia non hanno un costo, e che il film più costoso di sempre può averne meno del film meno costoso dell’anno. In questo contesto visivamente accattivante si sviluppa infatti la più banale delle storie, che fatica continuamente a stare al passo con il design e la concezione visiva capaci da soli di dare una patina molto più affascinante ed evocativa, vicina ai contrasti tra passato e moderno come li aveva intesi la saga di Bioshock (qualche cover di brani anni ‘90 avvicina ancora di più il tutto a Bioshock Infinite).

E una trama scontata in fondo potrebbe anche essere tollerabile, i generi si basano su formule fisse dopotutto, se non fosse che i personaggi sono ancora più banali della storia. Chris Pratt sembra l’imitazione di un personaggio di Jack Black, i robot buoni sono gli aiutanti comici e teneri, e Millie Bobby Brown, alla ricerca di suo fratello morto in un incidente (la cui mente sembra essere stata trasferita in un robot), è una protagonista che non conosciamo mai davvero, così generica da risultare priva di personalità. È impensabile che un film con ambizioni così grandi e con l’obiettivo di conquistare un vasto pubblico possa presentare personaggi che sono la copia di così tante altre copie da risultare totalmente sbiaditi.

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